giovedì 14 novembre 2013

Meridionalismo e Pci, un rapporto complesso

Il libro di P. Di Siena, Nel Pci del Mezzogiorno, Calice Editore, 2013, contiene degli spunti interessanti e degni di discussione. Al di là del libro – sul quale si rimanda più nello specifico qui (1) – si tratta di un agile libretto che riporta al centro dei temi solo apparentemente lontani, ma invece ancora molto vicini a noi.

Il libro non è di storiografia, ma neppure di mera “memorialistica”, come troppo spesso si è fatto, ma presenta dei documenti d’epoca, pochi e scelti, relativi ai territori d’appartenenza del Di Siena, e cioè Basilicata e Puglia, preceduti da una interessante Introduzione e da delle Conclusioni, che sono poi lo sforzo effettivo dell’ex-dirigente, che ha svolto però per anni anche il lavoro di giornalista.

Va detto che si tratta di un primo, piccolo sforzo di “storicizzare” quelle vicende: quindi non è un libro di mero giornalismo, non è cronaca, ma neppure è un vero libro di storiografia: come s’è detto, infatti i suoi sono come “appunti” per una possibile opera di storiografia. In ogni caso, è un primo sforzo, dopo tanto, troppo tempo, di andare oltre la mera memorialistica, che ha impestato questo genere di temi, quasi si fosse “bloccati” nel fare un minimo di teorizzazione, nel raccogliere un minimo di conseguenze storiche da quei tempi. Ripeto però: è solo un primo passo nel ricostruire una vicenda che, ahinoi, ci riguarda ancor oggi, per le conseguenze, appunto, che ha avuto. Il libro risente comunque ancora troppo delle tendenze memorialistiche dominanti su ed in queste vicende. Ribadisco che sarebbe ben ora di cominciare ad uscir fuori definitivamente dalla memorialistica, troppo legata alle vicende individuali.



Alcuni spunti di riflessione. Di Siena parla del “blocco storico” di gramsciana memoria – “mo’ ce vo’” la parola “memoria” - condita con l’idea del primato proletario. Vi era una precisa scelta di campo all’epoca, e l’essere comunista implicava necessariamente una opzione che facesse riferimento al detto primato. Ma, continua Di Siena, nel Mezzogiorno lo sviluppo comunista avviene sostanzialmente nelle campagne: dalle campagne alle città, stile Cina, piuttosto che Russia. Questo avvenne però con delle significative eccezioni: Napoli (città), parte della Provincia di Caserta, Taranto (città sempre). Ma tutti questi interventi, sia pubblici sia da parte di privati, avvennero sempre sotto “l’ombrello” della Cassa per il Mezzogiorno. E purtroppo non hanno lasciato quasi traccia in loco, o molto poca. Questo perché l’investimento non era vincolato al successivo sviluppo di aziende locali, come avviene invece in Cina: il che la dice davvero lunga sulle classi dirigenti, e locali e nazionali. La Provincia di Caserta è dove la lotta fra componente “agraria” ed “industriale” nel Pci di allora si fece molto serrata: diciamo che in questa Provincia è passata la “faglia” di questa relazione dialettica.

Si è obiettato che, sebbene il Pci dell’epoca fosse molto vicino alle tematiche della terra, e questo ne è senza dubbio la caratteristica distintiva, a livello nazionale anche i dirigenti meridionali comunque seguivano “l’ombrello” dell’ideologia proletaria. Non v’è alcun dubbio, ma questo generò una sorta di schizofrenia fra mente e sentire nel Sud. A livello “palpabile” il Pci nel Mezzogiorno seguì molto ciò che si è convenuto chiamare “meridionalismo” e non è affatto un caso che, diminuendo la centralità delle tematiche della terra, diminuì quindi anche il peso specifico delle tematiche meridionali.

Per riassumere: il Pci come sentire era legato alla terra, come pensare invece non lo era. Nondimeno, non si capisce la crisi di Napoli o di Taranto, o della Provincia di Caserta, senza capire la crisi totale dell’industrialismo nel Sud, sostituito dal nulla.

Si è anche obiettato che il bacino operaio fosse forte soprattutto a Napoli città: nessun dubbio, ma tutto ciò rientrava nell’epoca di Berlinguer, ed era legata, sebbene non certo con quel “personalismo” che ha impestato la politica italiana da vent’anni, comunque alla personalità d un leader: scomparso lui, finito tutto. Questo nell’ambito di una scelta di campo, che fu quella di far sì che le classi medie divenissero l’oggetto centrale della strategia elettorale comunista, classi medie legate alla spesa pubblica nel Sud, e non solo.

Il fallimento è stato tanto grande quanto il successo nella fase precedente – il Pci era il più numeroso partito comunista in Occidente – ed è stato dovuto (a p. 11 del libro di Di Siena) all’aver rimesso al centro l’individuo ed il processo della globalizzazione, due eventi, aggiungerei io, totalmente completamente assolutamente mal analizzati e peggio ancor affrontati da parte del PCI di allora -; la ragione è chiara: poiché collidevano con il suo schema operaista e proletario. Peccato che i maggiori successi del PCI furono dovuti non certo al pedissequo seguire “lo” schema quanto invece all’allontanarsene. Questa contraddizione era sì percepita dai suoi più riflessivi membri ed appartenenti, ma non andò mai oltre un certo livello, né indusse mai ad un diverso schema effettivamente teorizzato e pensato come tale.

Fu invece seguito lo schema dell’emergenza delle classi medie – a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso – in un tentativo che Di Siena denota come “generoso” e personalmente trovo invece meglio denotato dal termine “disastroso”; il tanto decantato ‘89 avviene in Italia in un partito già decotto e scotto: i giochi erano ormai fatti, anzi, strafatti. Infatti l’idea di base all’epoca era sostituire quel “blocco sociale” (p. 18) dei contadini al Sud e degli operai al Nord, con le classi medie della spesa pubblica.

Le classi medie italiane sono costitutivamente non interessate all’innovazione, quanto focalizzate sulle rendite da posizione da mantenersi “ad libitum”, per usare una terminologia musicale, tanto cara alla lingua italiana. Si trattava – e si tratta - di un blocco statico, con il quale nessun cambiamento è possibile: prova ne sia il secondo Ventennio, quello berlusconiano, dove, con le fole di cambiamento, invece le consorterie della spesa pubblica hanno festeggiato forse l’acme della loro capacità di condizionamento della vita pubblica in Italia. A questo si aggiunga la smunta borghesia napoletano-casertana, priva di progettualità e che si base quasi del tutto sulla spesa pubblica e che quindi è sempre stata, coerentemente, di centro-destra tendenzialmente: su queste basi davvero non poteva che darsi quella subalternità che poi si è avuta, di fatto, storicamente. Per gli eredi del Pci ci poteva solo essere la via, che poi si è avuta, dell’essere “cooptati come subalterni” (ibid.).

Dunque ricostruire la “genealogia” degli eventi è senza dubbio importante, ma se, e solo se, si sia prima o almeno contemporaneamente ben riflettuto sulle lezioni del secondo Ventennio. Lo stesso Di Siena, a proposito dell’oggi, parla di “crisi organica” (p. 19). Verissimo, ma qui vi è una crisi globale che in Italia si declina con delle aggravanti locali. Tali aggravanti son dovute anche alle scelte errate di quegli anni, ovvero aver sempre preferito un determinato quadro culturale già in crisi, scelta che si è rivelata – com’era prevedibile – sulla lunga distanza un vero disastro, ed alla facile via della subalternità di fatto che vi è seguita, “via” che si potrebbe chiamare vicolo cieco, con più esattezza. La subalternità della sinistra italiana si è saldata storicamente con la subalternità mentale fortissimamente presente nel Mezzogiorno in quanto tale, e cioè la rocciosa convinzione profonda che siamo “figli di un dio minore”, per dirla con il noto titolo di un film.

Per tirare le somme, il Pci – sotto il manto dell’ideologia operaia, e questo è senza dubbio storicamente assai particolare – ha costituito, di fatto e al di là di quanto si dicesse o di quanto effettivamente contasse quest’orientamento a livello nazionale (pochissimo), il riemergere ed il prolungarsi storico del meridionalismo storico. E l’eclissi del Pci meridionale non casualmente ha coinciso con la totale eclissi delle tematiche ricollegabili al Meridione. Nemmeno eclissi anulare, ma totale: il che è stato, ed è, gravissimo.



Per finire: in Appendice, nella Relazione del 1986 al 3° Congresso del Pci della Basilicata, da Di Siena citata, si sottolinea il “respiro corto” (p. 33) del processo d’industrializzazione, cosa ben nota sulla pelle della gente nelle poche zone in cui, nel Sud, esso è avvenuto, con tutte le subalternità del caso, ad esempio la Provincia di Caserta o Napoli città, ed ora Taranto città. Così l’industrialismo ha lasciato qui solo macerie.

La via era un’altra, ma era impossibile prenderla allora, perché avrebbe significato il mettere in questione il modello comunista tout court, e cioè focalizzarsi sulle tematiche della terra per innovare , ovvero porre al centro le tematiche del benessere, della gestione ecologica della civiltà, unendovi la natura e le molte emergenze storiche che hanno la grossa sfortuna di star nel Sud Italia, ovvero di essere marginali e subalterne per principio, fatte salve certe cose notissime. Vi tentarono n molti all’epoca, ma la cappa ideologica impedì. Quella fu la guerra persa dal Sud in quanto tale. Non in quanto “comunista”, ma in quanto Mezzogiorno: bisognerebbe interrogarsi seriamente su questo punto qui.

Molto più grave, però, che il Pci, dissoltosi e divenuto Ds, o qualche altra formula elettorale, scegliesse il totale oblio delle tematiche meridionalistiche: questo va detto a chiare lettere, perché in quel momento il problema, ben reale prima, del “mantello” ideologico non sussisteva più. E cioè fu scelta la falsa via del nuovo “blocco storico” con le classi medie della spesa pubblica che Pdl e Lega andavano rappresentando, con la Lega che coagulava attorno a se stessa anche parti molto rilevanti dell’ex elettorato operaio del Pci nel Nord, per cui i partiti di sinistra sono diventati sostanzialmente partiti concorrenti ma borghesi, ovvero il totale tradimento – parola forse troppo forte, usiamone un’altra: tradimento – di ciò che essi andavano predicando un tempo. E questo al di là del “continuismo” delle classi dirigenti: le classi dirigenti per principio vogliono perdurare il più possibile. Quindi la continuità non spiega il voltafaccia e il totale abbandono delle classi popolari, se tali dir si possono ancora, comunque subalterne, o la borghesia impoverita dalla crisi: anche questa ultima non può in alcun modo far riferimento agli eredi del Pci; tutte queste classi sociali seguiranno il populismo di turno, e criticare questo populismo servirà a ben poco, perché, passato un populismo, ce ne sarà un altro.

Gli eredi del Pci hanno scelto la via facile, della subalternità di fatto. Forse non potevano fare diversamente o non avevano la lucidità per fare diversamente: senza dubbio è anche mancato un leader con una visione ma invece hanno avuto tanti piccoli capi corrente. Ma, comunque la si veda, dal punto di vista storico, per il Sud sono, e rimangono centrali, le tematiche dette sopra: che ne facciamo della nostra terra? Le tematiche del benessere, della gestione ecologica della civiltà, unendovi la natura e le molte emergenze storiche, non costituiscono forse il punto centrale, il treno della storia perso qualche decennio fa e che, sotto spoglie differenti, e con fattezze molto diverse, si sta ripresentando?


(1) Alcuni spunti critici si trovano nella recensione a questo link: http://ugolini.blogspot.it/2013/07/quel-pci-giraffa-nella-storia-del.html


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