venerdì 16 ottobre 2015

“Federico II a Caserta”




Com’è noto, Federico II di Svevia (Santo Stefano del 1194 – 1250) aveva dato in moglie sua figlia al conte di Caserta, che, quindi, visse una fase di splendore, testimoniata dal Torrione detto, appunto, “federiciano”.

Caserta, detta oggi “vecchia”, in effetti Caserta tout court, visse allora il suo momento di massimo splendore, sebbene la città medioevale fosse di età ben precedente.

I segni del passaggio di Federico II di Svevia a Caserta non furono, però, soltanto architettonici, ma, senza dubbio, interessarono un altro aspetto, meno notato di solito: la falconeria, tant’è che il Torrione federiciano spesso vien detto “Torre dei falchi”. Allora, sia il clima che l’aspetto del territorio tutto avevan un carattere ben differente da quelli odierni.

Come prima cosa, ciò che si è convenuto chiamare “impatto antropico” era largamente minore rispetto ad oggi. Si sa, da documenti archiviali, che, sin tutto il XVII secolo lepri e cinghiali arrivavano fin quasi dentro la città, una situazione semplicemente inconcepibile oggi.

Quanto ai falchetti, fino alla Seconda Guerra Mondiale erano frequentissimi, mentre oggi capita che qualcuno, coraggioso, si propenda sino alla pianura, proveniente dall’interno, dall’altro lato dei Tifatini.

Ora, è altamente probabile che il conte di Caserta, Riccardo Sanseverino di Lauro, assieme all’Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, si dessero ad importanti cacce con l’ausilio del falco.

Tale pratica, che si è conservata sino ai nostri giorni, specie in Arabia ma pure in Occidente, è, in effetti, di origine squisitamente orientale, e Federico non mancò di coltivarne la pratica discorrendo con i monarchi islamici, in particolare con al-Kâmil.

Federico era così tanto convinto dell’importanza di questa pratica da scriverne il trattato De arte venandi cum avibus, “Dell’arte di cacciare con gli uccelli (cioè i falchi)”.

A parte la sapienza e l’esperienza vere che infuse in quel ponderoso scritto, ripubblicato non molto tempo fa anche in italiano, il fatto è che, per Federico II, la falconeria non era soltanto una pratica ludica, né un modo per tenersi in esercizio fisico oppure un atto “sentimentale”, cioè fatto per richiamarsi alle usanze degli avi germanici. Neppure si trattava d’imitare le usanze degli opulenti monarchi orientali.

No, per lui era qualcos’altro, qualcosa di molto più profondo. Si trattava d’insegnare a degli uccelli rapaci a cacciare ma non a mangiare la preda, cosa sommamente difficile, si trattava del dominio della mente sulla natura, ma seguendo la natura, non forzandola.

Si trattava non di negare, quanto piuttosto d’indirizzare, in una diversa via, gli istinti naturali del falco. In tal senso, per Federico, la falconeria era una scuola per i governanti. Un buon governante doveva essere come il falconiere: paziente, duttile, tuttavia forte, capace di reindirizzare gli istinti, le pulsioni dei governati. Essa, pertanto, da mera pratica, diveniva un’arte vera e propria, che impone da un lato disciplina in chi la esercita, e, dall’altro, porta dei frutti che vanno ben oltre gli effetti immediati. Il “buon falconiere”, secondo l’Imperatore svevo, doveva riunire in se stesso grande padronanza di sé, solida intelligenza, buona memoria, coraggio e tenacia, in mancanza delle quali doti le sue cognizioni pratiche sarebbero state senza vita.


Per lo Svevo “’mperadore” tutte queste doti erano altresì necessarie per il buon governante. Per questo, per Federico, la falconeria era così importante, ed andava ben oltre lo svago oppure la mera pratica “artigianale”.

Mi si lasci, dunque, terminar con delle parole, tratte dal De arte venandi cum avibus, che, in loro stesse, racchiudono tutta la filosofia di Federigo: “In questo trattato di falconeria è Nostra intenzione mostrare le cose che sono, come sono, e presentarle come un’arte precisa”.

Andrea A. Ianniello
(2005)

lunedì 12 ottobre 2015

Sull’etimo di “Caserta”



Come sottolineato dal professor G. Guadagno, col quale non sempre sono stato d’accordo, ma qui aveva ragione, l’etimo “Caserta” non ha per nulla origine nel composto di “casa” (casale, gruppo di  case o villaggio) ed “irta”, e cioè “erta sul colle”, secondo le etimologie classicheggianti dei secoli XVII e XVIII, ma invece deriva da “casa” (casale, gruppo chiuso di case che gestiscono uno spazio) e “hirt”, ovvero hert, inglese moderno “herd”, che vuol dire “gregge”. Gli etimi longobardi son fondamentali per una ragione sostanziale: quando i Longobardi si stanziarono non avevano la stessa religione dei latini oltre alla diversa etnia e lingua; in pratica, si stanziavano ma si tenevano lontani dai latini, dai conquistati, e davano i loro nomi ai posti che occupavano. Per questo, sebbene la lingua italiana presenti radici germaniche sia d’origine gota che longobarda, i Goti han lasciato molto meno tracce rispetto ai Longobardi, per questa ragione: i Longobardi si tenevano ben distinti dal resto della popolazione. Questo cambiò quando i Longobardi si convertirono al Cattolicesimo dal precedente arianesimo (seguivano Ario condannato da Costantino a Nicea nel 325 d.C.) e, soprattutto, dalla religione etnica che avevano: in tal modo l’ostacolo principale si tolse di mezzo e gradualmente i Longobardi furono assimilato dalla popolazione italiana (non è che fossero numerosissimi, tra l’altro), ma i nomi che diedero ai luoghi rimasero. Per fare un esempio, Sala è nome longobardo (in Svezia c’è Upp-Sala, sopra (up) Sala, e ci sta pure Sala, più a sud di Uppsala), ma qui ci sta Briano, che ha tutt’altro etimo, e Tredici, che fa riferimento alla centuriatio. Come si vede, il territorio italiano è una stratificazione di molti e complessi successivi insediamenti che, per l’appunto, lasciano una traccia nella toponomastica. 

Dunque “caserta”, che non si trova affatto solo qua in Campania, ma ve ne sono molte in Italia, è una casale o una località che gestisce un luogo (casale, “frazione” come dicesi oggi) dove si mettevano gli armenti, il gregge. Questo è il senso del nome del luogo (“toponomastica”). E difatti, ci sta Caserta capoluogo di Provincia in Campania, ma ci sono varie altre Caserta con varianti di nome, come “caserte” o “casirte”. Ora, solo e soltanto qui, in Campania, la Caserta – che altrove rimane solo una “frazione”, un “casale” – diventa città, “urbs” (grosse difficoltà continua ad avere Caserta a passare da urbs a pienamente “civitas”, che non è una mera conurbazione urbana che vada oltre il livello del “villaggio”, ma implica invece una precisa identità da parte dei suoi abitanti ed un senso di “amicizia” fra di loro, ambedue molto carenti a Caserta, come si sa). 

Perché, dunque, Caserta diventa “urbs”? Erchemperto (di Conca Campania) parla di un capo longobardo – e lascio ad ognuno, se davvero interessato, di andare a cercarsi i passi precisi[1] - che lasciò Capua, da dove proveniva, per rifugiarsi in questa località detta “Casirte”, Caserta, Casa “irta” (ma in epoca longobarda già si stava perdendo la ragione della vera origine dell’etimo toponomastico[2]) - cum quadraginta primoribus, con quaranta “notabili”[3].
Di qui l’inserimento di una componente esterna che fece “lievitare” un casale verso la decisiva formazione di una “urbs”. Continua, dopo tanto tempo, ad avere, Caserta, grosse difficoltà a diventare davvero civitas.
Andrea Ianniello


[1]  Vi è una edizione del 2003 pubblicata da Ripostes.
[2]  Questo per l’ovvia ragione che la cultura era latina. Nondimeno il nome ha spesso conservato la “h” iniziale o ha oscillato avendola e perdendola, finché alla fine l’ha persa definitivamente: da dove deriva la “h” iniziale? Forse che la parola latina “irta” (erta) presenti una “h” iniziale? Mai. Mai proprio.
[3]  E qui si può solo accennare al significato del n°40 in senso biblico, senso che Erchemperto, monaco, non poteva non conoscere. Infatti, mica è detto che i “primores” davvero fossero quaranta in senso numerico.

sabato 3 ottobre 2015

Si è svolta la “lectio magistralis” di Cacciari a Caserta per la presentazione del suo scritto “Re Lear: padri, eredi, figli”




Si è svolta la “lectio magistralis” di Cacciari a Caserta per la presentazione del suo scritto “Re Lear: padri, eredi, figli”






a. Si è svolta il 1 ottobre, nel Teatro comunale di Caserta, la lectio magistralis di M. Cacciari sul suo ultimo lavoro Re Lear: padri, figli, eredi, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta 2015. La lectio si è svolta per l’inizio dell’anno accademico del locale Istituto di Scienze religiose ed alla presenza delle autorità locali e sotto il patrocinio sia del vescovo di Caserta D’Alise che del vescovo emerito Nogaro. Ha presentato l’incontro don Nicola Lombardi, rettore del locale Istituto, che ha ripercorso in breve il decennale impegno di Cacciari per questi incontri casertani. Tra l’altro, è stata l’occasione per dare notizia del recentissimo scritto di Nogaro, già disponibile per questa stessa occasione, intitolato Grazie Cacciari, Saletta dell’Uva 2015. 

Sulla tragedia di Shakespeare Re Lear si dirà qualche breve cenno: infatti non è quest’ultima interpretata da Cacciari come testo letterario e basta, ma, invece, come mythos, come una figura archetipica che fa parte della civiltà occidentale assieme ad altre figure che sempre ritornano: Amleto, per rimanere a Shakespeare, oppure Ulisse. Il “mito” è una realtà meta-storica, non anti-storica ma oltre la storia. 

Di che cosa, dunque, Re Lear è “mito”? Di un’ apokàlypsis, vale a dire una revelatio, ma priva - come sempre in Shakespeare - di una redenzione finale, “come se Cristo non fosse”, dice Cacciari; il che accade sempre in Shakespeare. Ricordandoci la storia, l’epoca in cui Shakespeare scrisse è quella delle sanguinose guerre di religione, è quella dell’assenza del “re”, di colui che sa regere, ovvero, nella situazione dell’epoca, incapace  di reggere la situazione. Lear è un re folle, sia politicamente che teologicamente, e torniamo alle tematiche politico-teologiche sempre frequentate da Cacciari. Lear è folle politicamente perché, dividendo le sue terre tra le figlie, pretende comunque di mantenere il controllo del suo regno, ed è folle teologicamente perché pretende di vivere nel mondo antico, dove la patria potestas assicurava l’ auctoritas in maniera “naturale”. 



Con l’avvento del Figlio e dell’ “Età del Figlio” - Cacciari non lo nomina ma in filigrana si vede Gioacchino da Fiore e le sue “tre Età”, il Gioacchino “di profetico spirito dotato” (Dante) - non si dà più una regalità o un potere politico (una potestas) valida in quanto tale e che non debba fornire un qualcosa in cambio per riceverne consenso. In una parola: non vi è più potestas “naturale”. L’evo antico del Padre è terminato, può piacere o non e ci son ancor oggi son troppi “nostalgici”, ma così è. 
Ed allora il ruolo delle figlie è emblematico: nel dramma shakespeareano tutto è eccesso, anche i “buoni” son così eccessivi da far perdere di vista ogni misura, e tutti corrono alla fine, al momento finale ed “apocalittico” nel senso comune, privo di ogni redenzione. E qui Cacciari afferma che lo scopo di Shakespeare è proprio quello di presentare le cose in modo crudo, talvolta persino quasi crudele, per spingere a fare il “salto” ed “andar oltre”. Il figlio, come figura, o rinnega il padre, e quindi solo la morte del padre lo rende erede, oppure si spinge verso la ribellione, ed allora è divisivo rispetto ad altri fratelli: il parricidio porta necessariamente al fratricidio, come ci hanno abituato le varie rivoluzioni storiche. 



Nelle figure del padre che pretende sempre di mantenere il controllo, del figlio che si pretende novità a ripetizione pur non essendolo, e della figura del ribelle senza scopo, tutti i presenti han riconosciuto figure dell’attualità più stretta.
Ora, due vie si stagliano nell’ “Età del Figlio”: o si rinnega il Padre, la ribellione, o si eredita solo cose morte: la prima strada; o la seconda strada: il Figlio che si fa davvero erede, si sa “orfano” e conseguentemente “continua in forma diversa” l’ “eredità” paterna. Qui è palese il riferimento al concetto di “tradizione”, e che solo essendo consapevoli del retaggio comune - = eredità - si può evitare il fratricidio del bellum civile, che altro non è, argomenta Cacciari, che l’oblio di tale retaggio, ovvero di questa eredità commune. La ribellione distrugge la communitas, insomma. L’infedeltà altera l’eredità. La pretesa di novità, infine, la nega. 



Sola soluzione, per Cacciari è, in primo luogo, esser consapevoli della crudezza della situazione, senza belletti, senza mezzi termini, quelli cui troppo spesso e troppe volte ci si dà, peggiorando le cose, non certo migliorandole, ed aiutando sottozero a trovare una soluzione - quest’ultima, infatti, potrà nascere se e solo se si basi sulla realtà effettiva, non su quadri ormai passati, aggiungerei. Secondo punto: esser consapevoli che l’Età del Figlio implica l’esser erede consapevole o la sostituzione ed annullamento del Padre: la teologia della cosiddetta “morte di Dio” non nasce con Nietzsche, argomenta giustamente Cacciari, ma è già presente in Hegel. Personalmente aggiungerei anche da prima: Kierkegaard per esempio, certe sue pagine possono portare ad un tal esito. Ma, in definitiva, è una possibilità inserita già sin dentro all’Età del Figlio. 


Ci son poi state molte domande interessanti, che hanno aiutato il conferenziere a chiarire il suo pensiero, e su qualcuna di tali domande si dirà in seguito. 


Detto così in breve dell’incontro, si possono svolgere molte considerazioni, per esempio Augusto è Pater Patriae - nel senso antico di “pater” che non è meramente “genitor” -; in altre parole, la sua auctoritas è “naturale”. E Costantino? E’ più padre che figlio? Probabilmente è un misto, si pone, non casualmente tra l’altro, tra le due epoche. Egli è l’ erede di suo padre, in realtà, ed insieme porta la sua eredità oltre. Di fatto, è molto più legato al padre come attività, ma, di nuovo non casualmente, la posteriore tradizione cristiana n’esalterà la madre e ne oblierà il padre, Costanzo Cloro, invece storicamente decisivo. 

Il riferimento all’Età del Figlio, lo si è detto, è indirettamente un riferimento a Giocacchino da Fiore, ma è invece, più esplicitamente, Ernst Jünger, di cui ben si sa che Cacciari sia stato estimatore. E precisamente il riferimento è al libro di Jünger Al Muro del tempo, Adelphi edizioni, Milano 2000, dove Jünger ripresenta, nella prima parte, un suo vecchio scritto sull’astrologia, e, nella seconda parte, rielabora certi temi in un affresco davvero memorabile. Jünger insisteva sull’Età del Figlio e sulla fine dei padri anche, se non soprattutto, in politica - e si è già detto di come Re Lear sia un dramma politico, o teologico-politico. I passi che potrebbero esser presentati sarebbero tanti, ma se ne sceglie uno, anche se piuttosto lungo: 
“A un esame più approfondito certe coincidenze non possono tuttavia sfuggirci. Abbiamo ricollegato l’ideale dell’uomo nordico all’età ènea [del bronzo, cioè], definizione mitica del periodo che lo storico chiama età del bronzo. E’ l’epoca in cui il mito divenne realtà dominante, l’epoca in cui il mito determina azione e pensiero dell’uomo. Questa realtà permane incrollabile nel ricordo [corsivi miei], nei canti omerici e nelle saghe, ma di essa non si dà replica sul piano politico [corsivi miei]. Non è un caso che i modelli delle potenze sconfitte nella seconda guerra mondiale provenissero dall’età del bronzo o dalla prima età del ferro [corsivi miei]: l’uomo nordico, l’antico romano, il samurai giapponese. Che non avessero possibilità di vincere corrisponde alla fondamentale legge [corsivi miei] secondo cui il mito non può venire riattivato: può squarciare come un’eruzione vulcanica la volta della storia, ma non può dar vita a un clima universale [corsivi miei]. Questa fondamentale legge dà conto di numerose osservazioni specifiche, ad esempio che la guerra non possa più essere condotta tra popoli e da re, e neppure secondo le regole del duello. Essa perde così il suo ethos mitico-eroico, mentre permangono tratti distintivi più profondi, come la dedizione e il dolore. Questa legge spiega altresì perché il detentore eroico del potere abbia cessato di esser credibile in quanto guida e in quanto padre [corsivi miei]. Come già nel caso di Napoleone, questi deve presentarsi sotto spoglie di dux, di colui che libera energie. Suo modello è l’eterno giovinetto del tempo mitico [corsivi miei]. Perciò non può invecchiare [corsivi miei]” (E. Jünger, Al Muro del tempo, Adelphi edizioni, Milano 2000, pp. 106-107) [1].



b. Veniamo alle domande, di cui si dà conto solo episodicamente ed in relazione al fatto che possano esser interessanti. In una parola: si sceglie fra di esse, come sempre, del resto. Ogni azione è scelta. Ovvero decisione, vale a dire krisis, la “scelta”, evocata da Cacciari direttamente al riguardo dei due esiti contradditori ma perennemente possibili presenti ab initio nell’Età del Figlio “in quanto tale”. 

Tra le domande, dunque, non scelgo quella in cui un presente all’incontro chiedeva a Cacciari del fatto che sempre lui lasciava una speranza e stavolta non ne lasciava nessuna, perché Cacciari ha avuto buon gioco nel rispondergli che in primo luogo questo è Shakespeare e non Cacciari, e che, in secondo luogo, proprio questa crudezza lui la trova ottima perché pone la gente di fronte ad un momento duro che, proprio per questo, non dando facili e scontate “speranzucce da due soldi”, come oggi accade spessissimo, può propiziare una catarsi, un “andare oltre” molto necessario. 

La prima domanda ha fatto riferimento a quanto solo accennato da Cacciari nel suo intervento, e cioè a tò katèchôn oppure ’o katèchôn, neutro o maschile, dell’epistola paolina 2Ts, ciò o colui che “trattiene”, trattiene l’Anticristo dal manifestarsi, termine riportato al centro della riflessione teologico-politica da Carl Schmitt [2] e di cui Cacciari stesso ha trattato in sintesi nel suo Il potere che trattiene, Adelphi edizioni, Milano 2013, due anni fa, insomma, e pare assai lontano ma non lo è affatto... 

Non vi è più ilcatechon”, che “trattiene” e “regge”, cioè il “re” indipendentemente dalla forma storica, se monarchica o repubblicana o altre forme miste: una domanda di uno spettatore consentiva a Cacciari di precisare che si tratta della politica tout court, del governo tout court, del tutto indipendentemente dalla sua specifica forma


Questa netta e forte affermazione di Cacciari, peraltro assolutamente realistica, nulla più che realistica visione dell’effettiva situazione, veniva sottolineata da una domanda che si strutturava a partire dagli accordi di Bretton Woods del 1944 [3], e da ciò che i “padri” dell’epoca han costruito, in relazione alla “deriva mondiale” ormai ventennale in cui siamo immersi e direi sommersi. La domanda accennava anche alle speranze suggerite da papa Francesco nel suo ultimo discorso all’ONU ed all’emergenza dell’immigrazione. 
A parte che l’emergenza dell’immigrazione, rispondeva Cacciari, nasce dall’aver perso il controllo di tutta la fascia che va dall’Afghanistan al Marocco [4], continuava affermando la realtà: che l’ordine nato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale è finito ormai [5]. 


Ed aggiungeva che ci vogliono due cose: che i padri non siano ciechi, che cioè non pretendano di avere una potestas senza conoscere i figli, senza sapersi guadagnare il consenso, che insomma non pretendano il consenso senza dar nulla in cambio, e che i figli non pretendano né una ribellione senza basi né di ereditare senza riconoscere una continuità profonda, una traditio insomma. Siamo dove siamo perché vent’anni fa gli USA si sono in effetti pretesi quel padre cieco che Re Lear, di fatto, è nel dramma shakespereano, mentre ogni altra potenza di oggi non sa produrre ordine. Di fatto, aggiungerei, come si vede dagli eventi ultimi della Grande Coalizione contro l’Isis/Isil/Daèsh, ognuno vi entra pressato dagli eventi ma sostanzialmente senza un progetto “commune”, invece sostanzialmente per perseguire i propri interessi, e poi “fa anche qualcosa” per la coalizione. 




c. Ora, detto tutto ciò, potremmo anche pensarla diversamente su due punti: 1) che, secondo Gioacchino da Fiore, all’Età del Figlio, con le sue tremende divisioni, sarebbe succeduta una Terza Età, nuovamente unitiva e non più divisiva, unitiva come l’Età del Padre ma senza più la patria potestas: l’Età dello Spirito Santo, ma qui se ne può solo accennare; 2) che il “mitico” ritorna, e qui mi ricollego alla risposta di Cacciari all’ultima ed interessante domanda. 
Su questo secondo punto una qualche parolina in più è davvero necessaria, e di ciò subitamente me ne scuso sin d’ora col gentil lettore (ché so che “il tempo è breve”... for the time is short...). 

Il mitico ritorna sicuramente solo come puer aeternus e come eruzione vulcanica - spesso “dal basso” -, anche se non necessariamente sempre dal basso. Più spesso dal basso ritorna il “mitico” là dove la “coltre” storico-razionale, o pseudo-razionale, copre così completamente il terreno, blocca così ogni emersione, che non può darsi altra possibilità se non la piena esplosione. Ed ecco come giungiamo al “mitico che squarcia il terreno della storia come un’eruzione vulcanica”. Che “ogni potenza oggi non sa produrre ordine” non vuol dire altro che il katèchon non c’è più; ma, quando il katèchon più non c’è, che cos’accade nelle Lettere paoline? Che l’Anticristo si può manifestare! Infatti, l’Anticristo potrebbe manifestarsi in qualsiasi momento, argomentava Paolo, “se non fosse” che c’era la presenza di questo misterioso katèchon, sul quale centinaia di migliaia di tonnellate d’inchiostro si son depositati su. 
Ma questo “Anticristo che si manifesta” non è più storia, pone termine alla storia stessa, cosa perennemente non capita da quelli che vogliono identificare l’Anticristo con questo o quel personaggio storico, il che non vuol dire che “l’anticristico” non esista nella storia, ma vuol semplicemente dire che non si può identificare un determinato personaggio storico con l’Anticristo biblico, pur essendoci senza dubbio una “corrente satanica” nella storia, come sosteneva Guénon, tra gli altri. 

Se ne deve dedurre che, una volta che il katèchon sia sparito, la storia termini con un’eruzione del “mitico”, ma un mitico negativo che squarcia il terreno franoso, fangoso e fragile della storia. Un’eruzione del genere già la vicenda hitleriana, d’ ispirazione “anticristica” senza dubbio, anche se di certo Hitler non era l’Anticristo biblico - siamo chiari su questo punto -, ha indiscutibilmente dimostrato come la “ragione” ed il mondo “razionali” son del tutto incapaci di arginare o controllare. In una parola: si son dimostrati incapaci di reggere. All’eruzione del mitico dal basso il mondo storico-razionale si dimostra “al di là di ogni ragionevole dubbio”, de facto, incapace sia di reggere che a reggere. In una parola: il mondo storico-razionale non è “re”, rex, di tali eruzioni: potremmo star qui a discuterne a lungo cercando le ragioni di tale fatto, che rimane però tale, cioè fatto


Ed i fatti di questi nostri tempi nuovamente ci dimostrano la farraginosità profonda dei nostri sistemi “dai piedi d’argilla”, una volta sfidati da una minaccia simile, ma nient’affatto identica, a quella nazista. Infatti, le cose cambiano, e come quelli che si aspettavano che gli eventi della Seconda Guerra mondiale fossero una mera ripetizione di quelli della Prima rimasero molto ma molto delusi, ora chi si crede che l’attuale Terza Guerra mondiale “a pezzi” - come l’ha giustamente chiamata papa Francesco - sia la mera ripetizione della Seconda naviga nei suoi sogni, costruisce perdenti Linee Maginot, che mai a nulla son servite se non ad attestare la sconfitte peggiori. 


@i

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NOTE 


[1] Su questo blog ci sono molti riferimenti a quanto rimane di quell’età, da “The Horsemen” a quel che ne scrisse Maraini, tra gli ultimissimi ad esser testimone di qualche ultima vestigia. Quanto l’uomo contemporaneo balbetta di “identità” o di quei tempi, si vede la ricostruzione a posteriori e quasi turistica, giochetti: non ha la benché minima né più pallida idea di che cosa fosse - per davvero - quel mondo.... 

[2] Cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Catechon; e, sul testo citato di Cacciari: http://www.ilnodogordiano.it/?p=8112. 

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Conferenza_di_Bretton_Woods. [*]

[4] Guarda caso, è la fascia delle cosiddette “sette torri del diavolo” di cui su questo blog si ritrova qualche spunto e si son postati qualche link al riguardo. 

[5] Vogliamo essere un po’ “borderline”, come dicesi oggi? Bene, basta ricordare la “Profezia del Re del Mondo” riportata da Ossendowski (che avrebbe scritto anche un libro su Lenin) nel suo Uomini, bestie, dèi. Il mistero del Re del Mondo, Mediterranee, Roma 2000, parte finale, dalla quale si deduca che l’ordine nato dalla Seconda Guerra mondiale, ed oggi palesemente saltato, doveva durare fino al 2011... 

P. S. Un riferimento a queste tematiche da Cacciari già trattate e/o accennate lo si può trovare qui: http://lacittadelsale.blogspot.it/2010/10/cacciari-allauditorium-della-provincia.html. 

[*] Per chi volesse approfondire i temi economici, un link su questo blog: http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/09/appendice-al-post-precedente-per-chi.html.