martedì 12 maggio 2015

Incontro del 10 maggio sul “Fondo Broccoli” a Casanova di Carinola, chiesa del Convento di S. Francesco



  Si è svolta il 10 maggio, nella bella chiesa del Convento monumentale di S. Francesco a Casanova di Carinola, un Convegno dedicato al Fondo Broccoli dell’Archivio di Caserta, in relazione al 70° Anniversario della Provincia di Caserta.
 

L’incontro è stato organizzato dall’Associazione “Matilde Serao” e moderato da A. Corribolo (del Premio Matilde Serao di Carinola), il quale ha rappresentato anche il Presidente dell’Associazione, Silvana Sciaudone, impossibilitata a parteciparvi a causa di un imprevisto.
 

I Saluti sono stati presentati dal sindaco di Carinola, Luigi De Risi.

Vi sono stati molti e qualificati interventi, dopo la Presentazione dell’evento, sempre a cura di Corribolo.

Subito è intervenuta la Direttrice dell’Archivio di Stato, che ha colto l’occasione di presentare la difficile situazione dell’Archivio e poi ha lasciato alla dottoressa Funiciello (dell’ Archivio di Caserta) la dettagliata spiegazione di che cosa contenga il Fondo Broccoli, Fondo che ha ricevuto l’attestazione ministeriale di rilevanza nazionale.

Si tratta di un Fondo che merita di essere studiato per la grande abbondanza di materiali, non solo di carte documentali dell’attività politica dell’On. Paolo Broccoli, ma pure di libri, manifesti, cassette audiovisive e persino un’opera pittorica.


Va ribadito che il Fondo Broccoli non è l’unico fondo privato presente all’Archivio, e che fa parte di un più vasto documentazione che è il Fondo Broccoli – Capobianco – Ianniello.

Mentre il Fondo Broccoli, senza dubbio il più rilevante, è almeno parzialmente inventariato, per gli altri due fondi si è ancora lontani dal poter dire lo stesso.

Detto in breve delle Presentazioni, entriamo in medias res.


Iniziava la discussione il prof. Silvano Franco, dell’Università di Cassino che, pur non diffondendosi sull’ultimo periodo della Provincia di “Terra di Lavoro”, poi di Caserta, delineava in breve, ma efficacemente, le vicissitudini di questa Provincia fino alla sua soppressione dell’inizio del gennaio del 1927, ma, in realtà, maturata nel 1926.
 

Ora, come si sa, il territorio di detta Provincia comprendeva, prima della soppressione – unica fra le Provincie italiane ad esser soppressa – anche una parte del Sud del Lazio, la parte del Venafrano del Molise attuale, e la Valle Caudina, attualmente nel Beneventano.

Quando, nel 1945, settant’anni fa, fu ricostruita, queste ultime tre zone non rientrarono nella Provincia, ora detta “di Caserta”.


Seguiva l’intervento di G. Cerchia, dell’Università degli Studi del Molise, che, dopo una serie d’interessanti premesse metodologiche (lo storico come “detective” e gli Archivi come “polizia scientifica”), si focalizzava, invece, precisamente sul periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Dopo aver precisato che quest’ultima aveva interessato il territorio della Provincia in maniera tutt’altro che marginale, ha parlato dei risultati elettorali del Referendum fra Repubblica e Monarchia, e del problema delle relazioni fra continuità e cambiamento nelle classi dirigenti provinciali, sottolineando la sconfitta del partito dominante la Provincia, quello liberale, da parte della Democrazia Cristiana.


Quest’ultima comunque si era fatta portatrice di un progetto di modernizzazione.

Venendo alla questione dell’industrializzazione della Provincia, ambedue gli storici sottolineavano sia gli aspetti positivi di modernizzazione che quelli negativi del processo d’industrializzazione e della Cassa per il Mezzogiorno, la cui natura è stata precisata sia da Franco che da Cerchia.

In ogni caso, si sottolineava che, in quell’epoca, per lo meno la “questione meridionale” era al centro di un dibattito, mentre son ormai lunghi vent’anni – il Secondo Ventennio, berlusconiano, profondamente differente da quello mussoliniano, ma comunque accentrato sul Nord Italia – che tal questione ormai è sparita del tutto.



Per finire seguivano i Saluti del vescovo di Sessa, Mons. Francesco Orazio Piazza, che ha svolto un discorso molto colto anche su sollecitazione del moderatore, facendo un breve bilancio del suo magistero sessano, senza però dimenticarsi di ringraziare della presenza di Mons. Raffaele Nogaro, già vescovo di Sessa, nella cui scia ha sostenuto di voler mantenere il suo magistero.



Diciamo che vi erano riuniti gli unici, finora, momenti in cui la Provincia di Caserta è riuscita a venir fuori dalla sua subalternità costitutiva: la fase dell’industrializzazione ed il magistero di Nogaro; piaccia o non, è così.

A questo punto, vi sarebbe da fare un excursus e cioè chiedersi se la subalternità della Provincia derivi solo dai fattori brevemente elencati dai due storici: la vicinanza a Napoli (in architettura si direbbe che Caserta è una “città satellite”); o la perdita di una diretta rappresentanza presso Mussolini, come ha sottolineato Franco; o la scarsezza delle classi dirigenti locali, come ha brevemente puntualizzato Cerchia.

Tutto vero, ma personalmente giudico tutti questi fattori insufficienti ad una piena spiegazione.

Vi è da chiedersi, insomma, se non vi sia una subalternità “mentale” precedente; e, a tale domanda, mi rispondo di : troppo lungo sarebbe qui argomentarlo, ma basti dire che le spiegazioni fornite, per quanto senz’alcun dubbio vere, non sono sufficienti a denotare una così lunga, e davvero strutturale, subalternità.


“Vi è del marcio a Caserta”, e tale marcescenza non è solo effetto di fattori socio-economici, anzi interagisce con questi ultimi, rendendoli eccessivamente pesanti, più di quanto, in effetti, lo siano effettivamente.

Tornando all’intervento di Mons. Nogaro, egli ha semplicemente presentato la sua esperienza, la sua testimonianza: ha ripercorso le sue vicende e che cosa questa terra gli ha insegnato sul Vangelo legato all’uomo ed alla sua costitutiva debolezza. Ha sottolineato la centralità dell’Evangelo al di là della Chiesa istituzione, oltre che l’importanza e l’efficacia salvifica della sofferenza.



Nel rispondere alle varie sollecitazioni, prendeva la parola Paolo Broccoli che, come gli è costume, si è rifiutato di trarre qualsiasi Conclusione, invece sottolineando dei passaggi del processo d’industrializzazione in Provincia di Caserta – il 1950 come “annus mirabilis” - per poi allargarsi, a mo’ di “flash”, verso considerazioni più vaste.

Ha cominciato a parlare proprio traendo spunto dalle sentite affermazioni di Nogaro sulla sofferenza, dicendo che tale idea, in effetti, è costitutiva della tradizione occidentale, sin dalla Grecia antica.

La necessità della presenza di una tradizione è stata da lui efficacemente rilevata, con l’osservazione, però, che oggi si ha la tendenza culturale dominante che rifiuta questo concetto: si pretende una novità “assoluta”, che è cosa impossibile, poche sono le cose davvero “nuove”, gli aveva fatto precedentemente eco Piazza.

La centralità della politica e la sua attuale profondissima eclissi è stata da lui sottolineata. “L’errore del saggio è come l’eclissi del sole e della luna”, dice da qualche parte Confucio, ed ha questo senso: l’eclissi passa. Se l’eclissi non passa non è un’eclissi, è la notte. 
In altre parole: siamo in presenza di uno svanire della politica, di un passaggio totalmente annientante, oppure di una eclissi temporanea?


Paolo Broccoli continuava sostenendo che lui segue due “eresie”: quella marxiana, e quella della piena comprensione del mistero della sofferenza umana, in quest’ultima dando ragione a Nogaro.

Aggiungerei, però, che anche Nietzsche sottolinea il “mistero” dell’umana sofferenza come centrale, solo che non se ne dà senso, sostenendo che occorre accettarlo (“amor fati”) comunque esso sia, senza ragioni, Nogaro invece se ne dà una ragione, una ragione che non è una teoria od un pensiero, ma che è il Crocifisso, scandalo ed insieme giustificazione.


Broccoli ha sottolineato, ma non è certo l’unica volta, come l’allora PCI fosse contrario alla Cassa per il Mezzogiorno o a qualsiasi altro tentativo d’industrializzazione: le sezioni locali meridionali tendenzialmente erano sempre contrarie a questo genere di cose, sebbene le dirigenza nazionali de facto imponessero un’agenda.

In particolare, nel Sud, sebbene nel PCI vi fosse una lotta ed una dualità profonda fra industrialismo ed agricoltura a livello ideologico, non vi è alcun dubbio dove davvero battesse il cuore. In questo, il PCI meridionale è stato alquanto anomalo in Europa.
In Asia è stato diverso, i Partiti Comunisti erano contadini (Cina, Vietnam) nel profondo, non cittadini: in Europa questa centralità della terra è, al contrario, anomala o, comunque, molto meno diffusa.

Probabilmente questa differenza è dovuta al fatto che il PCI, nel Sud, aveva ereditato almeno una parte del “meridionalismo” storico, che vedeva nella “questione agraria” il centro decisivo della “lotta”, piuttosto che nella modernizzazione industriale.


Paolo Broccoli non ha mancato di sottolineare come solo per mezzo dell’industrializzazione vi sia stata l’effettiva modernizzazione della Provincia.

Per quanto sia vero, ci si dimentica qui di sottolineare che la Provincia fu sì modernizzata, ma si trattò di una fase particolare della modernità stessa. Quando la modernità ha cambiato pelle, come una serpe, la Provincia, legata da una fase precedente ormai, si è completamente eclissata.

E sinora non è certo svanita la fosca ombra che la ricopre, anzi.


Non vi è nulla da concludere.

Salvo un percorso di riflessione alla ricerca di nuovi punti di vista ed aggregazioni: la vicenda comunista è conclusa da tempo, sottolinea Broccoli.

Il neo-capitalismo trionfante genera sempre nuove contraddizioni, non passate né davvero risolte, aggiunge.

Per mezzo della tecnica oggi si ha il consenso.

Broccoli poi sottolinea, citando i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Machiavelli, come la politica abbia come suo oggetto principale il consenso ma oggi, nel processo di “fine della politica” in cui siamo da tempo immersi come pesci nell’acqua di uno stagno radioattivo, non è più questo l’oggetto “principe” della politica. Ma perché accade questo? Questo accade perché il consenso è già dato.

Questo ci si dimentica spesso di dire.

Ed il consenso è “già dato” - definitivamente dato – perché una democrazia che non prevede per lo meno due modelli davvero in competizione non può generare uno “spazio politico”, come già intravedeva J. Baudrillard ne La sinistra divina (Feltrinelli 1986).

Dunque, illo tempore, già prevedeva la futura sparizione dello “spazio politico”, ovvero della “dialettica del politico”.

E quindi anche la fine di Hegel: a questo proposito, rileggersi delle considerazioni sull’ “Impolitico” e lo stato “universale” in M. Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano 1978, risulterebbe interessante [1].

Siamo in quella passata stagione in cui si rifletteva sull’incipiente “crisi del politico”.

Oggi viviamo invece post eventum, quando tal eclissi è conclamata nei fatti, ma non ancora nella consapevolezza. E questo è molto ma molto grave, giacché una malattia che non si vede è davvero incurabile.

Difficile solo anche pensare alla ricerca, doverosa, di nuovi cammini, ripeto: doverosa e, direi, necessaria come l’aria, ma praticamente impossibile laddove si ricerchi soltanto di puntellare edifici già caduti, senza mai dirsi “Il re è nudo”.

Anzi, impedendo che si giunga mai ad un momento di consapevolezza che sia pure inizio di un nuovo, e necessariamente diverso, cammino.

Mai un cammino diverso è stato tanto necessario ma mai è stato tanto lontano.


Missione compiuta (“Mission accomplished”, come disse Bush figlio, e si è visto la missione era di fatto una distruzione….), si potrebbe dire a riguardo della fine del politico; semplicemente in Italia questo fenomeno è avvenuto con più ritardo che altrove, con modalità ancor più farraginose che in altri paesi, e, nella Provincia di Caserta, ancor più farraginosa di altre zone d’Italia, la cosa ha generato una quasi totale sparizione del politico, non solo una più o meno temporanea eclissi.


Le ultime osservazioni di Broccoli sono state significative: come questo processo di annullamento della ricerca e dell’ottenimento del consenso, ovvero della politica tout court, avvenga nella più “gioiosa incoscienza”.

Senz’alcun dubbio, è così.

Non vi è la benché minima consapevolezza delle modificazioni avvenute, men che meno di quelle in corso d’opera, ancor meno di quelle in essere a breve.


Eh sì, perché il sistema sta cambiando pelle ancora una volta: addirittura il capitalismo come sistema – che non sono i “padroni sciocchi”, la forza del sistema è la sua massa critica e non i meriti o demeriti di questa o quella più o meno “buona” individualità – il capitalismo come sistema si pone il tema dell’eccesso di disparità!

Sarebbe come a dire che le forze che han generato questa situazione si pongono il problema degli effetti perversi, ma inevitabili, del loro stesso successo storico…!


Rimanendo in quest’ambito di considerazioni, le vicende negative della Provincia di Caserta possono assurgere ad esemplificazione di eventi significativi, che poi è il vero senso di una vicenda del genere.

Pensarla diversamente significherebbe tornare a quell’errore “mentale” evocato qui sopra, a quella “piccineria” di sguardo e chiusura a riccio in piccoli eventi “localistici” che è una delle cause principali del fatto che la Provincia di Caserta sia stata l’unica a venire soppressa.

Certamente gli eventi e le forze socio-politici ed economici sono importantissimi, ma non separati dalla mentalità caratterizzante il milieu “culturale”, il qual milieu non è un mero prodotto di forze storiche, come la pensava Marx, quanto invece un fattore dialettico che interagisce, in modo sia passivo che attivo, con i “fatti” socio-politici ed economici.


Andrea A. Ianniello






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1 Ivi, pp. 73-74, dove si evoca pure la “Grande Politica”. Ora tutto si può dire della politica odierna fuorché il termine “grande”: essa è piccineria sfegatata e miopia congenita, molto “Provincia di Caserta”, Provincia che, dunque, assume il senso di imago mundi. Il mondo è una gigantesca Provincia di Caserta. 

 Questo passo è citato online al seguente link: http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/02/27/una-crisi-italiana-alla-radice-della-teoria-dellautonomia-del-politico/#_ftn27. Il link s’intitola “Una crisi italiana”, direi che la Provincia di Caserta si situa al cuore di tale “crisi italiana”. 
 
Il link è del febbraio del 2013, a riprova di un rinnovato interesse, si spera, verso queste tematiche… Interessante come l’autore del link appena citato (D, Gentili) ponga questo problema: “Il problema che l’esito del pensiero negativo lascia aperto è dunque: è possibile una politica rivoluzionaria – o almeno la decisione per una politica di innovazione all’interno di un Sistema politico la cui organizzazione converte, pur senza risolverlo e superarlo, il conflitto in conservazione? In che modo una soggettività che non ha più potere sul [corsivo in originale] sistema, pur partecipando alla sua conflittualità, può decidere e rendere effettuali le proprie rivendicazioni? Insomma, dal momento che il disincantamento non trasforma il sistema in quanto tale, come si può invertire il segno conservatore delle trans-formazioni [corsivo in originale] al suo interno?” [grassetti miei]. Siamo in grado di rispondere a questa domanda, anni dopo, e fermo restando che Cacciari ha come fatto molti passi indietro rispetto alla profondissima radicalità della domanda posta. E la risposta è: non è possibile. Appunto: “dal momento che il disincantamento non trasforma il sistema in quanto tale, come si può invertire il segno conservatore delle trans-formazioni al suo interno?”. Ed ecco la risposta: non è possibile. Finora i fatti ci dimostrano che non è possibile “invertire” il “segno conservatore” delle trasformazioni al suo interno. Salvo prendere tutt’altri sentieri. Che poi è il punto vero.

Si diceva che lo stesso Cacciari ha amplissimamente moderato la radicalità delle interrogazioni di quell’epoca in cui la “crisi del politico” si profilava sempre più massicciamente, ma la si vedeva ancora… Proprio nel 2013 usciva Il potere che frena, una riflessione di Cacciari sulla teologia politica (si sa, teologia e politica son due gemelli siamesi ma separati alla nascita…). A parte la “gestione dell’esistente”, come si può solo pensare a “frenare” ciò che è ormai “sfrenato”? E’ chiaro che il “potere che frena” - katèchôn (od ho katèchôn = colui che frena = Imperàtor) – non ha più alcun senso. Ma, allora, come si può parlare di “gestire” le crisi sistemiche? Il problemino non è da poco. Mai nessuna epoca avrebbe bisogna di “ciò-che-frena”, ma mai nessuna n’è stata tanto, e radicalmente tanto, più lontana…
Nel momento in cui mi metto a negare non posso far altro che annegare, come tutti, del resto... Una politica presupposta come negazione oggi è funzionale al sistema che pretende di criticare.