venerdì 4 settembre 2015

APPENDICE AL POST PRECEDENTE - per chi volesse approfondire -




APPENDICE AL POST PRECEDENTE 
(per chi vuol approfondire)

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Nel postulare la natura “rivoluzionaria” del “proletariato” Marx prese un abbaglio di non piccola entità, le cose non stanno così, le “classi subalterne” una volta entrate nel sistema, intendono rimanervi e lottano per questo, non per il cambiamento sistemico. Non si danno rivoluzioni senza condizioni estreme, condizioni estreme che sono nelle responsabilità delle classi dirigenti divenute digerenti e proprio per nulla nella natura “rivoluzionaria” delle classi “subalterne”: questo dimostra la storia, “oltre ogni ragionevole dubbio”, come dicono nei gialli americani (e gatti). Inoltre ha sottovalutato profondamente la potenza tecnica del capitalismo, e dunque la capacità di produrre merci senza troppo gravare sulla classe lavoratrice, che è stata, tutto sommato, meno schiacciata di quanto Marx credesse. Il fatto è che Marx “proiettava” lo stato di una determinata fase sistemica sulla natura generale del sistema stesso: grossissimo errore. 

Dove invece Marx ebbe ragione è su tre punti: 1) che le crisi sono ineliminabili dal sistema capitalistico; 2) che il sistema non può cambiare le sue finalità; 3) che la “caduta tendenziale del saggio di profitto” è il tallone d’Achille del tremendamente potente sistema capitalistico, che ha livellato usanze, tradizioni, ha schiacciato civiltà ed uniformato il più possibile e si è dimostrato la più terribile forza distruttiva storica che si sia mai vista, altro che Mongoli o Tartari o “Invasioni barbariche” cosiddette … Non si tratta, infatti, di un singolo tornado, ma di un annacquamento che “spugna” le cose in modo irreversibile

Sul punto 1 vi è poco da dire: a quanto pare, “lor signori”, gli “illustrissimi strologa tori” e grandi cantori delle “magnifiche e progressive sorti” del sistema vigente cominciano ad ammetterlo, ma come un epifenomeno. Il punto 2 già è ben più difficile che si ammetta: la tendenza attuale è quella della riforma che mantenga il quadro generale di riferimento; i “delusi” abbondano ed anche gli “orfani della fase espansiva” del sistema. 

Veniamo al punto 3. Marx portò avanti la teoria del valore-lavoro, sulla quale non ci si può soffermare salvo brevemente dire che problema decisivo dell’economia è come si misura e costruisce e determina il “valore” delle merci. Marx lo ricollegava quindi al lavoro, secondo me sbagliando in parte  (ma sarebbe lungo discorso). Come che si determini, di certo c’è il valore. Il valore ha due volti: d’ “uso” (l’acqua, bene abbondante che vale poco), e di “scambio” (tipo un rolex d’oro). Cose rilevanti per la vita valgono poco e cose del tutto irrilevanti per la vita valgono tantissimo è il “paradosso del valore” (del quale parlò un abate di Chieti, ma napoletano d’adozione, nel XVIII sec.: l’abate Galliani). 

Ora dice Marx: il capitale è “dynàmei”, “in potenza”, deve – deve -  diventare altro ed accrescersi. Deve accrescersi, è il suo “imperativo categorico”. Poiché il capitale è solo potenziale, se non si accresce allora decresce. 

Deve - deve – accrescere il suo profitto/i suoi profitti, o rassegnarsi al suo termine, cosa che nei sistemi pre-capitalistici era normale: nel capitalismo è anormale. Il capitalismo non è in grado di cambiare questo suo “imperativo categorico”. Il resto son parole al vento, bla bla bla. La gente che si “sorprende” di pagare per il sistema vive nei suoi sogni, crede alla giustificazione che tale sistema si auto dà e fornisce ogni volta. 

Ora il sistema ha vinto Marx, il quale sosteneva – giustamente peraltro – che per seguire il suo “imperativo categorico” il sistema capitalistico deve trovare un modo per accrescere costantemente – per accrescere costantemente (quest’ultimo termine è decisivo) - il saggio di profitto. Se non lo fa, va in stallo. Lo stallo si chiama “crisi capitalistica”. La crisi non può non esserci, giusto, ma la natura della crisi e del meccanismo di scarico delle contraddizioni:  qui è dove Marx ha sbagliato perché lui sosteneva che tale imperativo categorico lo si potesse conseguire solo affamando la  classe lavoratrice. 

Eh no, non è andata così. Si può conseguire in altro modo lo stesso scopo, la stessa finalità (sulla finalità Marx non errava, invece)  – e Marx lo intravide nel III Libro de Il Capitale (“Das Kapital”, gen. neutro) – ovvero accrescendo la capacità di produrre beni, merci, che poi è com’è andata effettivamente. Ma, ed ecco il punto, questo fa sorgere la necessità di chi compri le merci: ed ecco il “consumismo” e la necessità di dare denaro alle classi subalterne perché divengano consumatori, divenire consumatori vuol dir essere omologati ed uniformizzati da e per prodotti “standard”. In tal senso, la crisi del ’29 è l’anima del capitalismo, è il suo punto nodale (come notava illo tempore J. Baudrillard, che notava che non ne siamo mai davvero usciti, ed è una considerazione attualissima); fu crisi di sovrapproduzione ma la gente non comprava le merci: OGGI

Per ovviare a tale stallo, in parte, ma – soprattutto – per accrescere l’imperativo categorico, ma categorico davvero, si è visto lo sviluppo della finanza, sia per fornire credito per acquisti, sia per moltiplicare a dismisura le possibilità di profitto per mezzo di “prodotti” finanziari cosiddetti, che sono delle catene di crediti su crediti su crediti. 

Ora qua il punto è che il fatto che l’economia finanziaria ecceda di molto quella “reale” (reale in senso capitalistico perché, dal punto di vista marxiano, la merce stessa è una costruzione sociale dunque “irreale” e non “naturale”) è notissimo a chi segua tali tematiche, anche se pubblicamente se ne ha in pratica consapevolezza uguale allo zero. Quel che spesso si sente dire, a giustificazione, è che l’economia “reale”, supposta “buona” (ma è solo una supposta …), deve prender forza a fronte della “cattiva” economia dei bit, quando invece quel che abbiamo visto è il necessario sviluppo dell’imperativo categorico una volta che, su di una determinata merce, il saggio di profitto che ci puoi far su necessariamente – necessariamente – è destinato a decrescere. Per questo, nell’informatica, ci son sempre nuovi prodotti, perché giunge fatalmente un punto a partire dal quale i profitti che ci fai su di un determinato ritrovato tecnico iniziano a diminuire. Non è dunque così: una buona economia cosiddetta “reale” a fronte di una economia finanziaria dei bit detta “irreale”; si tratta, invece, dell’inevitabile applicazione del problema di base della “caduta tendenziale del saggio di profitto”, sulla quale non ci puoi far nulla, dopo una fase di accrescimento è matematico che avvenga una di saturazione con conseguente diminuzione del saggio di profitto. 

Capiamolo bene. Tu fai sempre nuovi ritrovati tecnici e pompi credito nella parte di società che t’interessa, mai tutta - i subalterni li seduci e gli dici che possono entrare e non faranno mai nulla di sostanziale -, sei allora in una botte di ferro, ma le botti di ferro affondano … In altre parole, il saggio di profitto che fai anche in questa maniera, è destinato a scendere, come suol dirsi: “non ci sono santi che tengano”. Se però dai vita a “prodotti” finanziari che moltiplichino esponenzialmente il saggio di profitto, l’imperativo categorico sarà soddisfatto. E’ fondamentale capire che il sistema non può cambiare le sue finalità, può esser cambiato solo dall’ imposizione di logiche altre da fuori del sistema stesso. 

Sennonché la catena di Sant’Antonio di crediti su crediti su crediti ad libitum non può durare per sempre e si rompe da qualche parte: ha conseguenze imprevedibili. La fiducia nel sistema dev’essere ristabilita nell’unico modo che oggi esiste: pompare liquidità nelle vene sclerotiche sistemiche. 

Ma nemmeno questo dà certezza assoluta. Perché? Per un fatto sostanziale: il meccanismo del credito. Se tutti i risparmiatori del mondo in un momento chiedessero indietro quanto dato al sistema di credito, comunque quest’ultimo funzioni, che sia onestamente o disonestamente, scoprirebbero che NON CI SONO MAI STATI, il sistema crea e distrugge valuta, e presta ciò che NON ha. 

E questo non nella nostra “cattiva” economia iper-finanziaria, ma sin dall’inizio del sistema capitalistico, si veda com’è nato il debito pubblico inglese nel sec. XVII (diciassettesimo). Solo che un tempo la distanza tra la capacità produttiva e il moltiplicatore finanziario non aveva raggiunto gli estremi dei “nostri” tempi, estremi raggiungibili grazie alla tecnica. Senza tecnologia questo moltiplicatore non poteva divenire così enorme, questo è proprio evidentissimo. “Ha fatto più il capitalismo per la tecnica che la tecnica per il capitalismo” (Anonimo). 

Ed allora, come se ne vien fuori, da un pasticcio di un tale gigantesca entità? Sostanzialmente, non se ne vien fuori, e le contraddizioni accumulatesi devono potersi “liberamente” esprimere per stabilizzare nuovamente il mondo. Ma, nell’ottica che oggi va per la maggiore – e nulla più di questo ci fa capire che un ciclo è terminato -, e cioè cercare di risolvere le cose all’interno di un quadro che non può che produrre determinate conseguenze, occorre dire che ci vuole una nuova Bretton Woods e che la valuta cinese deve far parte del paniere dell’FMI a determinate precise – conseguenti e precise – condizioni. Questo in vista di un passo decisivo: la moratoria del debito sovrano globale globale eh – sia detto a chiare lettere. Perché tale debito NON E’ PAGABILE, “onorabile” né ora né MAI.

Se questo non sarà fatto, il mercato si auto-regola nel senso della auto-riduzione. Il che implicherà quelle conseguenze dette in un post precedente e il tentativo di porre “un argine” alla serie di crediti su crediti su crediti che è lo sbocco necessario – necessario vale a dire inevitabile poste certe determinate finalità, non dunque un fenomeno casuale, non una “cattiveria” (salvo interrogarsi sull’eticità dell’imperativo categorico sistemico, che non è affatto etico) – dell’imperativo categorico del capitalismo. Se tu poni un argine – c’han tentato in tanti nel XX sec., senza riuscirci, e da posizioni opposte – all’imperativo sistemico, tu ne stai mettendo in questione le finalità

Se ne deve necessariamente dedurre che, a questo punto, saremmo fuori del capitalismo storico, quello reale, quello che c’è, non quello dei modelli economici fasulli, che postulano una “razionalità” dell’azione umana e delle finalità sistemiche che si ritrova solo nei cervelli di chi le pensa e di chi è stato educato ad accettarle come dato “naturale” ed indubitabile. 

A. Ianniello

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NOTA


Riferimento, cfr. ANDREA A. IANNIELLO: Baudrillard, la "sinistra divina" e il mito (http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/05/andrea-ianniello-baudrillard-la.html). 

Anche: http://associazione-federicoii.blogspot.it/2013/12/di-una-crisi-passata-che-si-e.html.
Ed: http://associazione-federicoii.blogspot.it/2013/12/di-cose-gia-passate-che-hanno-avuto.html.
Infine, recente: http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/09/liberi-di-non-scegliere-1995.html.

 

Incontro alla libreria Feltrinelli, 1 settembre, organizzato da “Liberalibri”



Incontro alla libreria Feltrinelli, Caserta 1 settembre, organizzato dall’Associazione “Liberalibri”

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Si è svolta alla Libreria Feltrinelli (Caserta), alle ore 18.00, un incontro dal titolo San Leucio, l’Archivio di Stato, Beni Culturali: mancanza di progetto nell’identità scomparsa. Appunti di riflessione”. 

Gerardo del Prete esponeva dei disegni fatti per l’occasione. Presentava il Coordinatore dell’Associazione Liberalibri Enzo De Rosa, che ricostruiva le ragioni dell’incontro, andato sorprendentemente bene. 

A seguito dell’Introduzione, e del successivo intervento di Paolo Broccoli, si sviluppava un interessante dibattito, cosa rara in certi “climi” mentali. 


Interveniva anche don Battista Marello, parroco di San Leucio, che parlava della situazione reale sul campo e degli interventi e dei tentativi del locale Comitato, ed imprenditori locali (Traettino e Marzano), oltre che di altri presenti: una rara occasione di pubblico confronto, che poi era la vera ragion d’essere dell’incontro stesso.
Per quel che riguarda l’andamento concreto dell’incontro si rimanda alle cronache locali (*), qui l’intenzione è riflettere con prospettive più vaste sull’occasione che San Leucio fornisce e che va ben oltre Caserta stessa. 

Su Caserta è presto detto: non è assolutamente all’altezza di un luogo come San Leucio, così come delle altre notevoli emergenze culturali locali, dal Medioevo all’ indimenticabile stagione della romanità, che qui ha lasciato tracce rilevantissime ma pare non esserci mai stata; che dire poi di Federico II, dei Longobardi, dei Normanni, degli Angioini, ma gli stessi Borbone, il Decennio francese, che dire di Vanvitelli (e mi taccio). Insomma ci sarebbe da sedersi e vivere di rendita. 

Ma son tutte cose da “valorizzare”, sì, ma non meramente in termini pecuniari, come si fa da sempre a Caserta, con risultati pessimi, eh sì, pessimi, non solo da parte dei politicanti espressione di una borghesia asfittica, perennemente priva di una qualsiasi progetto e sempre ultima ruota di scorta, per di più bucata, ma pure da parte di una classe imprenditoriale che ha fallito miseramente. 

Durante l’incontro c’è chi ha evocato la “Brianza del Sud”, e viene da ridere a questo nome: vero, verissimo che a Caserta – ma, in Campania, non è certo l’unico posto così - abbiano il “pallino” dell’imprenditorialità, ma son così slegati da qualsiasi “cultura territoriale” che i risultati sono molto ma molto scarsi. Non mai verrà per il capo ad un imprenditore locale che il valore dei beni è quello che diamo loro, è quello conferito. Nessuno farà mai qualcosa per qualcosa di cui non ri-conosce il valore, e non ne ri-conosce il valore non solo perché “nessuno glielo ha mai detto” (anche per questo), ma perché la sua identità non “riconosce” quei luoghi come “fondanti”, lui “non è” lì. Quelle emergenze si trovano in quel territorio ma “slegate” dagli abitanti, e viceversa. 

Nel corso del suo intervento, Paolo Broccoli non ha mancato di ricordare come Napoli sia fondamentale per Caserta, il che è verissimo essendo il caso Caserta quello tipico di una città-satellite, ma il problema rimane quello dell’ “identità” casertana. Per quanto siano senza dubbio grossi i difetti di Napoli, il problema dell’identità di Caserta è di Caserta, la quale non riesce a competere non certo con città di un ordine di grandezza con il quale non può avere a che fare, ma con città dello stesso ordine di grandezza, per esempio Aversa. 

Facciamo un esempio per capirci: Versailles e Parigi, è un rapporto molto simile a quello fra Caserta e Napoli, molto simile. Bene, se vedo Versailles vedo una città che, ovviamente, non ha alcun interesse di competere con Parigi, ma che tuttavia possiede un suo proprium, un suo “pedigree”, una sua caratteristica identità. Quando vedo Caserta mi chiedo: che identità ha? Attorno a cosa coagula la sua natura? E la risposta è molto ma molto difficile: ha un’identità sfuggente, abbozzata, parziale, incompleta, è una “urbs” che con grosse difficoltà riesce a diventar davvero “civitas”, un “paesone”, come ce ne sono molti (non è certo l’unico caso, peccato però che ci sia la Reggia e tante altre cose…), con le classiche lotte intestine “da paese” e che non riesce mai a diventare “massa critica” per ottenere dei risultati effettivi. Non stupiscono, allora, le perenni vicissitudini negative delle quali l’ultima è quella della “Terra dei fuochi”, che in effetti ingloba anche una grossa parte del napoletano (ma rimane “bollata” significativamente quasi alla sola Provincia di Caserta). 

Detto questo come introduzione al problema, veniamo all’intervento di Paolo Broccoli e dei molteplici spunti proposti. 

Come prima cosa, l’incontro non è “politico” in nessun senso, salvo “politica” la s’intenda nel senso antico, e cioè come occasione di dibattito pubblico, il che dà legittimità ad un gruppo di cittadini di proporre un tema di discussione essendo - e rimanendo - solo e soltanto semplici cittadini, con l’aiuto di una semplice Associazione che abbia funzioni organizzative, e di un luogo d’incontro: nulla di più, nulla di meno. Che, poi, questa pubblica discussione sia “il sale” della democrazia, lo si dimentica praticamente sempre oggi, dove la democrazia è una “tecnica di votazione”, in poche parole. La franca discussione, tra le altre cose, è precisamente il significato della “parrhesìa” evangelica, e non dimentichiamoci che “ekklêsìa” in origine non era altro che “assemblea”: l’assemblea dei “credenti”, prima che la “gerarchia” dei ceti dirigenti romani entrasse con forza nella Chiesa cristiana rendendola quel che, storicamente, poi è stata effettivamente. 

Il fulcro del suo intervento è stato l’assenza di progettualità, non solo sulla specifica questione in esame, riguardante i Beni Culturali in oggetto. Quest’assenza di progetto e di una visione di più lungo periodo nasce dalla chiusura, come per l’Ulisse dantesco (**), dell’orizzonte “delle” modernità nel solo ridottissimo sguardo monco della dittatura del “mercato”. Secondo lui, in Italia la politica è sempre più schiacciata sull’immediato, in un mondo in cui le prospettive si restringono o sono già sparite. Il punto decisivo, aggiunge, è che nello “schiacciamento sull’immediato” l’uomo contemporaneo non si sente parte di una “tradizione”, ha tagliato ogni legame reale col passato, che, al massimo, è un contenitore, o mero “turismo”. Questo rende fatalmente le “prospettive” semplicemente non sussistenti. Vi è poi, in questa parte della Campania, in modo specifico, una caratteristica incapacità di mettere la struttura museale interessante di questa zona in rete comune. 

Manca “l’amicizia”, continua, nel senso di Toqueville (***), che, a sua volta, usava tal termine nel senso antico: una pòlis che non avesse “amicitia” (ovvero Concordia, che è l’opposto di Discordia-Eris (****)) è destinata a fallire o a rimanere un’ urbs che non diventa civitas. Quando la Discordia vinceva in una pòlis, per quest’ultima si verificava uno “scisma nel corpo sociale” (per dirla con Toynbee) ed era il segnale della fine della stessa pòlis, che, presto, sarebbe stata conquistata dall’esterno o sarebbe stata prima o poi abbandonata per altri lidi o luoghi. Questa è la via, per una città dai grossi problemi d’identità, una città che, ovviamente, non può certo essere una grande città, ma non riesce nemmeno ad esser quel che può effettivamente davvero essere. Sicuramente, con Napoli così vicino, Caserta è una “variante” di cose “napulitane”, e non potrebbe essere diversamente per ovvi motivi geografici, con in più delle altre cose “miste”, nessuna delle quali, però, davvero integrata in una sintesi che produca una fisionomia precisa o anche soltanto una fisionomia “eclettica”, forse più adatta al luogo “mercuriale” che Caserta poi è. Questo si può evincere anche dall’etimo latino-longobardo del nome “Caserta” = casa (radice latina) più hirt/hert/herd (radice germanica), il che rimanda ad un luogo dove si conservavano le greggi e, poi, per estensione di significato, un “mercato” ed un luogo di transito. La natura profonda del luogo questa è e questa rimane, ma evidentemente un “qualcosa” è intervenuto che ha bloccato il processo di pieno passaggio da urbs a civitas

Tema “ultimo ma non ultimo” (last but not least), il tema dell’ utopia, che ha costellato il Novecento nei vari tentativi – comunisti, fascisti, nazionalisti, nazisti – d’ “inveramento” dell’utopia stessa. Dopo aver puntualizzato che “l’intellettuale” – “gramscianamente” – non può darsi senza un riferimento sociale ad un gruppo preciso ed interessi specifici, Broccoli ribadisce che il tentativo comunista è chiuso e finito, fa parte della storia. Rimane il problema, gigantesco, delle prospettive su di un livello più vasto. 

Qui discutere di San Leucio tornerebbe utile come “spunto” ed occasione, al di là dei problemi “identitari”, che ovviamente ci sono e che nel dibattito l’han fatta da padrone, mentre il tema generale è stato compresso soltanto all’inizio degli interventi della serata. Lo stesso Broccoli puntualizzava che, sebbene gli studi sull’architettura di San Leucio siano stati tanti e profondi  ed ha ricordato il suo importante contributo all’organizzazione della Mostra del 1984 a San Leucio – proprio la tematica dell’utopia è stata relegata ai margini e, chissà come, la cosa non stupisce affatto. Infatti un tale “relegare” una tale tematica “ai margini” è perfettamente conforme alle tendenze dominanti la “nostra” epoca

A mio avviso, invece, trattare le tematiche generali è la giusta direzione, senza dimenticare i problemi pratici, ovviamente. Oggi si pensa che i problemi pratici debbano star lontani dai quadri di rifermento generale, per non disturbare l’assoluta predominanza del quadro imposto al mondo. 

Quel che segue è solo una serie di spunti riguardo al tema generale che sta “sottotraccia” ed insieme “oltre” la tematica di San Leucio.
Dove si ricollega San Leucio alla vicenda globale che stiamo vivendo (la vicenda globale è questa: l’implosione sistemica del capitalismo). San Leucio è una “comunità utopistica” di produzione formata dall’ “assolutismo illuminato”, che cos’è l’assolutismo illuminato: il tentativo, da parte di alcune corone europee, di dominare lo sviluppo economico-tecnologico che il capitalismo è. La grande piazza antistante la Reggia “che sta” a Caserta, detta “i Campetti”, ma che erano Campo di Marte o Piazza d’Arme, la più grande d’Italia (fuori San Pietro, che è Città del Vaticano) e tra le più grandi d’Europa, ha un messaggio come piazza S. Pietro a Roma. A Roma, città dove Vanvitelli ha lungamente lavorato, il messaggio è che la Chiesa abbraccia tutti. Alla Reggia detta “di” Caserta, ma separata psicologicamente dalla città, doveva essere che la monarchia “illuminata” abbraccia il progetto di “sviluppo economico-tecnico” delle borghesie. Significativamente, la piazza è incompleta sin dall’inizio, e poi vari interventi hanno peggiorato la cosa: la monarchia non poteva guidare il progetto borghese, progetto peraltro molto fallimentare nel Sud (ulteriore paradosso).
San Leucio, quindi, si trova all’inizio della vicenda della modernità e del capitalismo, vicenda della quale oggi stiamo vedendo le battute finali (sviluppare questo punto ci porterebbe troppo lontano ma vi sono molteplici spunti in questo blog, in particolare negli ultimi post, che hanno come spunto la crisi ultima, di quest’anno s’intende). Questo è il significato di San Leucio.
Se non abbiamo la consapevolezza, profonda, di questa vicenda che si conchiude, di un fil rouge che passa per eventi e luoghi ed epoche, facciamo aria fritta. 

Interrogativi profondi tutto ciò suscita in noi, questa vicenda, vista come un percorso unitario pur unitario non essendolo affatto. 

Vi era “un’altra” modernità possibile? Non lo sappiamo.

Vi era un solo esisto possibile al percorso della modernità? Questo lo sappiamo, i fatti storici stan lì a dirci che una sola via c’era, di fatto. Se io brucio del legno produco una certa energia, ma, se dal legno bruciato voglio tornare al legno, ci vorrebbe un’energia ben maggiore. Questo, se chiude la porta ad ogni “nostalgico”, “orienta” il processo storico in una direzione precisa e, di conseguenza, quando quel sistema orientato entra in fase implosiva, impedisce una soluzione al problema della implosione sistemica. 

@ndrea ianniello






NOTE
 
(*) http://www.ilcasertano.it/di-notte-e-di-giorno/san-leucio-e-archivio-di-stato-incontro-liberalibri-alla-feltrinelli/.



 (**) “Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso” (Dante, Divina Commedia). (“Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”, tra l’altro, è anche un articolo Wikipedia:   https://it.wikipedia.org/wiki/Infin_che_'l_mar_fu_sovra_noi_richiuso).


(***) Noto autore della Demorazia in America. (Articolo Wikiquote su Toqueville: https://it.wikiquote.org/wiki/Alexis_de_Tocqueville#La_democrazia_in_America).



(****) Cfr. Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 10-25.