sabato 1 ottobre 2016

Cacciari a San Leucio, per presentare “Occidente senza utopie”




Cacciari a San Leucio, per presentare “Occidente senza utopie”




Si è svolta il 30 settembre (2016) la presentazione del libro M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016, con la presenza anche di V. Vitiello (che è stato ordinario di filosofia teoretica all’Università di Salerno[1]). La presentazione si è svolta a San Leucio, questo “castello d’aspettative mai realizzate”[2], proprio perché il luogo, essendo collegato ad un “esperimento utopico” settecentesco, si presterebbe “mirabilmente”, com’è stato osservato, a trattare dell’utopia, che poi è il tema della serata. Sennonché, pensarla così significherebbe aver capito ben poco di quel che Cacciari, in dialogo con Vitiello, ha sostenuto nel presentare il libro.


Utopia.
La tesi di fondo di Cacciari è, infatti, semplice: l’utopia nasce con Tommaso Moro, ed essa non ha niente a che spartire con il sogno – quindi nemmeno con la letteratura “simil-utopistica” ellenistica -, ma nasce dalla critica del presente, critica che presenta un progetto per il futuro: il progetto della scienza-tecnica, del sapere-potere che deve governare la società, ponendo termine così al dominio aristocratico proprio del Medioevo (vedremo poi quanto valore dare a quest’ultima tesi). In tal senso, quest’utopia si prolunga fino al Settecento ed agli inizi dell’Ottocento, fino a Saint Simon, che Marx tanto detestava (lo detestava proprio).

Di conseguenza, l’utopia settecentesca di San Leucio rientra pienamente nell’utopismo nato in Inghilterra con Tommaso Moro, utopismo che ha ricevuto il massimo sigillo nella Nuova Atlantide (“New Atlantis”) di Francesco Bacone[3], non a caso – continua Cacciari – inglese come Moro. Ora, quest’utopismo termina con l’inizio dell’Ottocento e con la critica marxiana, dalla quale nasce il socialismo “scientifico” e fa seguito al compimento dell’utopia, e cioè alla realizzazione dell’imposizione della scienza-tecnica – mai davvero scindibili, argomenta Cacciari – come criterio centrale nella e della società. Secondo Marx, infatti, gli utopisti non si son accorti delle contraddizioni che questa vittoria, propiziata dall’illuminismo e che Marx assolutamente condivideva, ha provocato nel suo massiccio “applicarsi” alla società. Infatti, l’Occidente è stata l’unica civiltà dove la scienza-tecnica abbia raggiunto il dominio assoluto e sia divenuta il criterio normativo “modale” centrale di discrimine fra vero e falso; altre civiltà hanno avuto un notevole sviluppo tecnologico, ma solo questa l’ha posto al centro, e poi l’ha massicciamente applicato al sistema economico: ed è il capitalismo divenuto dominante ovunque. E, d’allora in poi, nulla è cambiato in quest’aspetto, anzi, il sistema si è rafforzato ed espanso come non mai, generando altre contraddizioni. Qui si può criticare Cacciari a misura che abbia sostenuto che Marx non pensasse che il capitalismo sarebbe caduto per le sue contraddizioni interne: no, la pensava esattamente così; vero è che, tuttavia, sosteneva la necessità d’una “soggettività collettiva” (la “classe operaia”) che guidasse l’ “inevitabile” – per lui - processo di caduta del sistema capitalistico (ma su ciò, mi son espresso più d’una volta in questo blog, considerando quel che di buono, comunque, è rimasto di Marx e quanto, molto, sia ormai più che “datato”[4]).

Prima di addentrarci ulteriormente nel groviglio di queste questioni, un’osservazione va fatta. Qui siamo, come dire, nel discorso, ricorrente, della “crisi dell’Occidente” (fase di “crisi” già da tempo superata, nel senso che “l’Occidente” sta “più giù” della fase, ormai passata, della “crisi”[5]); la particolarità sta nel porre al centro l’utopia, realizzata, dell’Occidente, e la sua fase attuale di svuotamento, ovvero la crisi dell’utopia realizzata, crisi che si verifica proprio perché si è realizzata.  

Questa è l’interpretazione – convincente - che Cacciari dà del “Tramonto dell’Occidente” di splengleriana memoria.

L’Occidente tramonta perché ha realizzato la diffusione su tutto il globo del sapere-potere e della scienza-tecnica applicata all’economia (= il capitalismo). Ma l’Occidente è anche “altro”, continua Cacciari, esso è contraddizione ed è profezia ed utopia: quella stessa contraddizione che ha consentito alla scienza-tecnica, al sapere-potere di potersi esprimere “in rottura” – apparente, secondo Wallerstein - col sistema precedente, quella stessa contraddizione è stata schiacciata dal prevalere quasi assoluto del sistema che fa del sapere-potere della scienza-tecnica il suo punto centrale, direi il suo unico e solo punto.

La tesi di Cacciari è nota (e l’ho anche criticata in un altro post): è questa contraddizione l’Occidente, è quest’oscillazione l’Occidente. E dunque, l’ “Occidente senza utopia” è quello in cui, avendo predominato, in modo quasi assoluto e pervasivo, questo modello del sapere-potere della scienza-tecnica più capitalismo[6], le basi complete dell’Occidente stesso si sono spente: il suo essere senza utopia è come il suo essere senza profezia, dove la profezia è l’opporsi frontalmente al potere della situazione presente, qualunque esso sia tal potere: qualunque.

In tal senso, il legame con la storia della Chiesa è palese, ed ecco la ragione del primo contributo nel libro Occidente senza utopie, a firma di P. Prodi, dove si tratta di storia della Chiesa, non casualmente certo. La Chiesa, cattolica in particolare - ma vale per tutte le religioni che si fanno “Chiesa” e cioè istituzione -, vive di quest’oscillazione, di questo pendolo, fra l’ istituzione, e la fede, la convinzione, sin dal tempo di Costantino (al quale ho dedicato un piccolo volumetto[7]).

I problemi, nel mondo islamico, di nuovo non casualmente, cominciano da quando l’istituzione del Califfato fu abolita da Atatürk nel 1924, nel 1923 si avevano gli Accordi Sykes-Picot – quelli che son saltati, di nuovo non casualmente, nei nostri presenti giorni.


Oriente ed Occidente.
Alla domanda sull’Oriente e sulla Cina e l’India in particolare, fattagli dopo la Conferenza, Cacciari rispondeva che in questi paesi la razionalità “gestionale” tecno-scientifica ed il modello occidentale sono stati assunti in maniera quasi perfetta – in tal senso, il “Tramonto dell’Occidente” è il compimento dell’Occidente stesso -, ma non tutto l’aspetto d’utopia e profezia e contraddizione dell’Occidente.

Tutto quest’aspetto è completamente non compreso in quei paesi, ed è vera quest’osservazione.

Ma qui, tuttavia, si può anche osservare che non è un caso quest’effetto, e cioè che la Cina e l’India - ma più consapevolmente la Cina - abbiano per così dire rispecchiato e rimandato indietro verso l’Occidente la forza delle scienza-tecnica e del capitalismo tecno-globalizzato, che l’Occidente stesso ha proiettato sull’intero globo. Si tratta di ciò che altrove ho chiamato il “judo storico”, che, di fatto, ha distrutto l’Occidente, in quanto ha fatto ritornare indietro questa forza, nel qual mentre nell’Occidente stesso tale forza diveniva del tutto dominante e, quindi, poneva termine a quel perenne stato di contraddizione che aveva dato all’Occidente il suo stesso dinamismo. Sì, è un paradosso, è una contraddizione, ma la vita è contraddittoria, non è affatto “razionalistica” nel senso dell’ Encyclopédie di Diderot e D’Alembert.

Quanto di questo “judo storico” sia stato consapevole, è dubbio ed anche difficile da misurarsi. Probabilmente, certi gruppi dominanti in quei paesi vi si son votati perché era, in concreto, l’unica possibilità (di cui la “firma rimasta” è duplice: il passaggio di una parte dei figli dei mandarini al “comunismo” cinese e l’appoggio di certe società segrete cinesi a Mao Zedong; ancor prima, la gestione del “Nuovo corso” (isshin) Meiji dà degli spunti in tal senso, anche se meno consapevoli che in Cina, minore consapevolezza si vede anche in India, ma i risultati son simili: la vittoria di un modello, mutatis mutandis, per adattarlo ad esigenze storiche specifiche particolari).

Come un’altra critica che può esser mossa a Cacciari può basarsi su quel passo di Wallerstein, da me più volte citato, in cui si vede come una parte delle classi dirigenti aristocratiche europee abbia supportato il capitalismo, ovvero la massiccia applicazione della scienza-tecnica all’economia.

Nel loro desiderio di “razionalizzazione”, gli “utopisti” supponevano società “egualitarie” – in varie forme – alla base di tale sforzo, quando invece il controllo di tale tendenza “scientifica” da parte di settori delle vecchie classi dirigenti è ciò che ha dischiuso all’Europa il dominio del mondo. E questo è avvenuto in Inghilterra, e cioè nella nazione patria par excellence degli utopisti: non credo sia casuale nemmeno questo fenomeno. Vi è stato, dunque, un solo modo storicamente comprovato - il resto è proiezione di “desiderata” – di “scatenare” la potenza tecnologica (“tecnologia” = tecno-scienza come distinta dalla scienza “pura” che non s’interessa di applicare le scoperte; ora, tutti sanno che nella scienza moderna le scoperte si devono applicare, in ciò ben diversamente dalla scienza greca o islamica, che pure han generato quella moderna, non dimentichiamocene!!).

Depistante è stata la Rivoluzione francese, laddove la classe aristocratica, a causa degli enormi privilegi (e costi) conferitigli dalla corona francese, e che non avevano riscontro parallelamente in Inghilterra, privilegi pensati per legare, in una relazione di dipendenza, l’aristocrazia alla corona, dove la classe aristocratica, si diceva, ha difeso l’ “ancien règime” a spada tratta piuttosto che tentare di “cavalcare la tigre”, mentre in Inghilterra l’aristocrazia si è mescolata ed ha controllato in parte l’ascesa borghese, dando, tra l’altro, nascita alla cosiddetta “gentry”. In definitiva, dunque, non solo a vincere è stata – symboliciter – l’Inghilterra e non la Francia della Révolution, ma, senza la Rivoluzione industriale che applica la scienza-tecnica all’economia e, conseguentemente (massicciamente), alla società tutta, la “resistibile ascesa” della democrazia (ormai “maschera dell’oligarchia”, come recita un recente libro di Zagrebelsky e Canfora) sarebbe stata impossibile. E, in definitiva, tra i due principi, cede quello democratico, per ragioni strutturali.

Parallelamente a quest’errore, un altro grosso limite dell’analisi di Cacciari è la comprensione della “nascita della scienza moderna”, discorso lungo, cui si è solo accennato qua e là[8]. Le due cose son legate, in quanto, appunto, il nodo centrale era: chi controlla la scienza-tecnica? Il “bene comune”?

Naturalmente no, nient’affatto, e difatti così non è certo andata; qui torna Machiavelli: il “potere” è una cosa specifica, nell’epoca specificamente moderna legato al progetto scientifico di “copertura” dell’intera Terra con l’ “installazione” (estranea) della tecnica, ma il potere già esisteva prima. E la strutturazione precedente – pur attraverso poderose crisi – avrebbe reagito, controllando il movimento del “progetto” scientifico stesso. E dimostrando – al di là di ogni ragionevole dubbio – che tale sviluppo solo un comando “diffuso” da parte delle “aristocrazie del denaro” può scatenarlo davvero, e non lo “stato”, il comando unico.

Chi controlla, e indirizza, per i propri interessi, l’applicazione “razionalizzatrice” della “economo-tecno-scienza”, che è un tutto di tre parti che s’implicano? Che cosa mai sarebbe il sistema presente senza i mezzi tecnici che consentano d’inviare informazioni a distanza? Nulla di nulla, ma questo è vero sin dall’inizio: senza mezzi scientifico-tecnici il capitalismo non avrebbe mai esercitato il suo dominio globale, per l’appunto.  


Bloch e Lukacs.
Nella nota a pie’ pagina n°5 ho brevemente ricordato qualche titolo sulla “decadenza e crisi” dell’Occidente. Ma c’è stata un’epoca in cui questo tema divenne centrale: dalla fine della Prima Guerra Mondiale (che di nuovo fu “pivotale”[9], come in inglese dicesi) e, in misura del tutto particolare, l’epoca fra gli Anni Venti e Trenta del secolo scorso, con una “coda” fino agli Anni Quaranta, con i Cinquanta si cominciava  a costruire quel che qualcuno ha chiamato neo-capitalismo – terminato a partire dalla fine degli Anni Settanta e con gli Ottanta, con la nascita del “turbo capitalismo” o capitalismo “hyper” finanziario, “l’ipertesto del capitalismo”, come lo chiamo in parte scherzosamente, ma la cosa è serissima, serissima davvero.

Per comprendere questo secondo “anello” della discussione, va precisato quel che Cacciari ben spiega: dopo la “critica” marxista l’utopia non può più essere tecnico-scientifica e “razionalizzante”, non può più partire dal presente (come Moro o F. Bacon) per progettare il futuro, ma deve far esattamente l’inverso: partire dal futuro – un futuro indeterminato – e proiettarsi sul presente. Diventa “escatologica” e recupera la carica “apocalittica”.

Nell’ambito della scuola marxista, la polemica si sviluppò fra Ernst Bloch e G. Lukacs – e fa piacere Cacciari ricordi queste polemiche – anche se Bloch è molto meno noto di Lukacs[10].[i

Nell’ambito della critica marxista all’utopia (per un socialismo “scientifico”), la polemica fra i due segnala, per Cacciari – ma è molto condivisibile, a mio avviso -, la “spaccatura” fra carica “utopica” e gestione dell’esistente in modo “scientifico”. La sostanza della polemica era questa: che Bloch accusava – giustamente, a mio avviso, sin da quando lo lessi, illo tempore – Lukacs che la sua sottolineatura, come la gran parte del marxismo, peraltro, delle contraddizioni interne al capitalismo non poteva generare la “rivoluzione” (il mythos della “rivoluzione”[11]), in quanto il capitalismo vive di contraddizioni, sono esse che lo spingono ad espandersi o a collassare, ma sempre a dinamicamente cambiare (il capitale – “das Kapital”, neutro – è dynàmei, “in potenza”, diceva Marx, non è mai una “cosa fissa”, ma è sempre “potenzialità” di espansione e profitto), e in questo Bloch vide giusto (mi fa piacere essere stato d’accordo con lui sin dal principio su questo punto, non su altri). Pertanto, lui, Lukacs, non avrebbe potuto essere se non subalterno al “sistema” oppure al servizio di qualche potere politico che, in nome della “critica” marxista, in realtà perseguisse dei classici obiettivi “di potenza”, si sarebbe detto in altri tempi. E così è stato, in quanto Lukacs è stato “intellettuale organico” a favore dello stalinismo.

In linea generale, solo in Europa il marxismo ha avuto un suo ruolo “critico” ed “utopico”; altrove esso ha puntellato i vecchi sistemi statali accentrati, consentendo ad essi di modernizzarsi senza doversi frammentare, che poi è stato il gran merito storico del marxismo, malgré lui même.

A sua volta, Lukacs, con forza, criticava Bloch, accusandolo di andare a finire nell’utopismo anarcoide, privo del legame “fattuale” con l’aspetto “scientifico”. E’ la classica “critica” verso ogni “apocalittica”. A distanza di tanti anni, va detto – e lo dice chi scrive, non Cacciari, al quale invece sta a cuore la separazione fra utopia e gestione dell’esistente – che comunque la carica utopica, del tutto assente dall’Occidente moderno, rimane inalterata e valida comunque, mentre l’aspetto “scientifico” del marxismo è caduto in grandissima parte, pur essendo recuperabili taluni aspetti del Marx come studioso d’economia (e qualche post è stato scritto, a tal proposito, su questo blog).

Per Cacciari, tuttavia, anche Bloch non va bene lo stesso: questo a causa del fatto che Bloch mescola l’aspetto pienamente storico con quello escatologico-utopistico. Come si è altrove visto, per Cacciari il negativo è fondamentale, ma deve rimanere ben distinto dal positivo[12]. Secondo lui, va sempre salvata la contraddizione, ma è proprio questo che non si può far più, è proprio questo che il predominio assoluto della “razionalità scientifico-tecnica” e del “turbo-capitalismo” ha reso impossibile. In tal senso, la critica di questo stato di fatto – stato di fatto da molti decenni, ormai – è molto debole, come tutte le critiche sull’ “omologazione”. In realtà, siamo diretti verso “altro”, l’epoca dell’omologazione avvenuta e compiuta spinge verso un’altra situazione.


Max Weber.
Sia Lukacs che Bloch erano stati allievi di Max Weber, il quale criticava entrambi, seppur per ragioni differenti. La visione di Weber è quella del “disincanto”, la componente “utopica” va lasciata pienamente cadere, ma quella “scientifica”, che è il nostro unico orizzonte reale, rimane quella della “gabbia di ferro”, espressione coniata proprio dallo stesso Weber e proprio nel suo studio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, un classico ancora discusso[13]. La prospettiva “scientifica” era un male per Weber, non il “bengodi” di cui favoleggiava la corrente principale del marxismo, tipizzata da Lukacs, ma un male inevitabile; e tuttavia, non era certo a favore dell’utopismo “apocalittico” di un Bloch.

A tal proposito, Cacciari ha esplicitamente citato il libro di Weber sul “lavoro intellettuale” come professione[14], dove l’orizzonte è, senza dubbio, e qui Cacciari ha ragione, quello del “disincanto”, il gran disincanto del mondo. Si può solo fare una “grande amministrazione”, secondo Weber, come Cacciari esattamente ben spiega. La “scientificità” è un “destino”, dunque non vi è spazio per utopismi, ma è pure una “gabbia di ferro” (The Iron Cage), l’uomo vi è prigioniero, prigioniero del sistema tecnico ed economico. Naturalmente, il libro di Weber appena ricordato è stato saccheggiato, letteralmente, come “citazione utile” nei decenni passati, senza per questo esser capito. E’ la sin troppo famosa distinzione fra “etica della convinzione” ed “etica della responsabilità”, che veniva citata a supporto delle proprie … convinzioni! A questo punto veniva fatto di chiedersi se tal libro fosse davvero stato letto da chi lo usava come appoggio per le proprie convinzioni e, se sì, se l’avevano compreso, perché Weber vi sosteneva l’esatto contrario! Per lui, tu puoi avere tante belle convinzioni, ma, quando amministri, devi sempre chiederti: se non faccio questo, se non prendo queste decisioni, quali saranno le conseguenze??

Se misuriamo questa rigorosa visione con la “politica” dei nostri tempi, dobbiamo necessariamente dedurne che, sia a livello nazionale che internazionale, siamo guidati da irresponsabili, nel senso letterale del termine: gente che non risponde, gente che, se gli fai una domanda, ti sciorina le sue convinzioni. Ma voi non avete delle cariche per causa delle vostre convinzioni, occorrerebbe ricordarlo. In linea generale, è una vera e propria epidemia collettiva, ognuno sciorina le proprie convinzioni, e succede dappertutto, ed ogni dialogo allora diventa, per principio, impossibile, questo nel mentre si esalta il “dialogo” come chissà qual balsamo su ogni ferita, come panacea (= rimedio per tutti i mali), quando manca proprio la base per il dialogo stesso.

Ogni Chiesa, ogni religione istituzionalizzata che voglia andar oltre la confraternita di gnostici, ha questo problema: di seguire un’etica della convinzione, ma di dover agire in base all’etica della responsabilità. Se non lo fa, se sostituisce la convinzione alla responsabilità, è perduta; ma lo è lo stesso se si schiaccia sulla mera gestione dell’istituzione, dimenticando l’etica della convinzione. E’ un rapporto dialettico, in cui non si deve mai arrivare ai due capi estremi, che sia uno o l’altro cambia la modalità di crisi interna, ma che la crisi avvenga è semplicemente certissimo.

Weber era altamente, oserei dire tragicamente – nel senso vero e greco del termine di scelta fra due mali – consapevole del problema. “Il mio collega F. W. Förster, di cui personalmente ho la massima stima […], ma dal quale, come politico, dissento nel modo più netto, crede di poter sormontare la difficoltà con questa semplice tesi: dal bene può derivare soltanto il bene, e dal male soltanto il male. Allora l’intero problema evidentemente cesserebbe di esistere. E’ però sorprendente che 2500 anni dopo le Upanishad si sia potuto ancora sostenere una simile tesi. Non soltanto l’intero corso della storia del mondo, ma anche un esame spregiudicato dell’esperienza quotidiana c’insegna esattamente l’ opposto. Lo sviluppo di tutte le religioni del mondo è fondato proprio sul fatto che è vero il contrario. […] Questo problema dell’esperienza dell’irrazionalità del mondo ha costituito la forza motrice dell’ intero sviluppo di tutte le religioni. La dottrina indiana del Karma [corsivo in originale] e il dualismo persiano, il peccato originale, la predestinazione e il Deus absconditus [corsivo in originale], discendono tutti da quest’esperienza. Anche i primi cristiani sapevano perfettamente che il mondo è governato da demonî e che chi s’immischia nella politica, ossia si serva della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo[15]. E quanti “fanciulli” oggi …

Questa tesi del “dover averci a che fare” con le “potenze demoniache” del mondo, per poterle dominare, o semplicemente bloccare, o anche soltanto controllare, è la tesi dello stesso Cacciari in un suo precedente libro[16], tesi il cui “nocciolo centrale” si ritrova in queste parole del testo di Weber, che evidente Cacciari avrà studiato e ristudiato molte e molte volte.


Utopia e profezia.
Proprio in relazione a questo precedente testo di Cacciari (Il potere che frena) si è svolta l’ultima parte del dibattito con Vitiello, che ha ricordato le parole finali de Il potere che frena, ponendole a confronto con le parole conclusive di Cacciari in Occidente senza utopie (per l’esattezza, il contributo di Cacciari a questo volumetto, scritto da due autori, s’intitola: Grandezza e tramonto dell’utopia, che poi è il tema che si è brevemente trattato, pp. 63-131). Nelle parole finali de Il potere che frena, Cacciari evocava lo stato presente come una corsa verso la dissoluzione, dove “Epimeteo scorrazza libero” di crisi in crisi e di emergenza in emergenza.

Al contrario, le parole finali del contributo di Cacciari ad Occidente senza utopie, cambia qualcosa[17].
Dopo aver sottolineato come la crisi derivi dalla separazione dell’ “impolitico” pratico da un’attesa che si rivolga solo al “Deus adveniens[18], tenta di riaprire uno spazio di riflessione che accetti la “separazione avvenuta”, e questo è molto à la Cacciari, “contro ogni consolante compromesso o nostalgia che pretendano di ‘sanare’ oggi tale condizione”[19]. “Politica, teologia, utopia debbono essere custodite pure nella loro radicalità”[20].
Questa, secondo lui, l’unica chance concreta nel “nostro tempo”. 
Lasciare pure le distinzioni, perché interagiscano, in vista di una possibilità futura. 
Il punto vero è, tuttavia, che questo “lasciare che interagiscano” è ben difficile, nella presente situazione: noi viviamo, infatti, dentro una situazione tale dove anche questo “possibile”, fondamentalmente di buon senso e d’intelligenza, diventa complicato, se non impossibile. Proprio il confronto con la radicalità della presente situazione sembra costituire “il” punto decisivo e nodale. 
Debbo quindi aggiungere che una tale proposta non soddisfa, in quanto, ben lungi dal poter “restaurare” lo squilibrato ma dinamico “stato” precedente - e Cacciari non ne ha la benché minima intenzione -, pure non consente alcuna vera apertura al novum, come lo chiama lui.
Il punto decisivo è un altro: quando, per esempio, dice che oggi “si rischia” di dire “pace e scurezza” come unico orizzonte, dunque precisamente quel qualcosa, quelle parole che, nell’ Apocalisse di Giovanni, danno inizio all’ “apocalisse” nel senso di processo di fine di un’Età e di un mondo tutto.
Ma questo è già stato detto, prima del 2008, ed in seguito. E, d’altra parte, le religioni non sono in grado di risaldare quel che è stato separato. Della politica non si può far altro se non prendere atto della situazione per cui la politica è, al massimo, amministrazione, buona amministrazione, ed è il massimo 
Ma la “profezia”, che fine fa?
Chi, oggi, davvero - ma davvero eh – si oppone al potere, a questo potere che già Baudrillard nel 1978 denotava come “polverulento”, in crisi gravissima già in quei tempi?
Questo è “il” problema, perché oggi assistiamo da un lato alla completa “istituzionalizzazione” delle religioni, come orizzonte, oppure alla loro separazione interna fra un “Adveniens”, tra l’altro speso molto ma molto mal inteso, ed “istituzionalizzazione”, ma da nessuna parte vediamo esercitata da qualcuno la funzione profetica di “opporsi al potere”, di condanna del potere della situazione, i “protestatari” e i sedicenti “alternativi” di oggi non vogliono altro se non tornare ad una situazione appena precedente, o anche più vecchia (“vogliono solo tornare ad una fase meno avanzata del processo di dissoluzione”, osservava già illo tempore Guénon).

In una tale situazione, la funzione profetica non può esser esercitata se non da un falso profeta.
E l’unica, vera, possibilità di “agire” è quella di opporsi a tale falso esercitare questa funzione profetica.
Il resto è rumore.
Il resto lascia le cose come sono.

Andrea A. Ianniello





PS.
Un link, del quale non condivido affatto tutto – va detto con chiarezza – ma è comunque interessante che ci sia questa “percezione” della presente situazione: http://www.linkiesta.it/it/article/2012/09/06/impossibile-fermare-il-declino-loccidente-e-gia-in-agonia/9110/.
Di simile, in questo blog, è il post ove si dice che l’Europa è già morta, http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/sulle-ciance-sull-identita-sulle.html.



[1] Cf. http://www.raiscuola.rai.it/articoli/vincenzo-vitiello-cristianesimo-senza-redenzione-aforismi/3600/default.aspx, http://www.rizzolilibri.it/autori/vincenzo-vitiello/, https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Vitiello.
[2] Cf. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/06/san-leucio-un-castello-di-aspettative.html.
[3] Cacciari è stato molto interessato da F. Bacone, al punto da scrivere un’ Introduzione alla Nuova Atlantide, Silvio Berlusconi Editore, Milano 1995. In M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 80-82, Cacciari sottolinea più volte la centralità di F. Bacone.
[4] Il problema è sempre quello: la relazione fra necessità e soggettività nel processo di “caduta”, tema vastissimo, che molto eccede queste poche, sparse noterelle.  
[5] E vorrei qui ricordare alcuni testi, scelti in ordine sparso e senza proprio nessuna pretesa di completezza: non si può non partire da Il Tramonto dell’Occidente di Spengler (Der Untergang des Abendlandes, “L’Andar giù (la ‘Via di Sotto’) della Terra del Tramonto”, letteralmente).
Ricorderei, poi, Occidente senza futuro, di Moncada di Monforte, del 1998 (cf. https://it.wikipedia.org/wiki/Occidente_senza_futuro); quest’ultimo link riporta una nutrita Bibliografia, cui si rimanda: questo per dire quanto il tema sia stato dibattuto nel corso del tempo.
Fra tutti questi titoli vorrei però, ricordarne uno, piuttosto interessante, anche per la data di pubblicazione: A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, Einaudi Editore, Torino 1992. Ed un altro, davvero “datato” e molto “sociologico” come prospettiva, ma, di nuovo, assai interessantissimo, sempre per la data: 1992.  
In ogni caso, rimane vero che: “Avviene nel segno dell’utopia l’apertura del Moderno” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 69), ma è proprio questo che si è arenato irreversibilmente. Ed è altrettanto interessante sottolineare come fosse la pace “universale” la “cifra” dell’utopia, ottenibile una volta che il “progetto scientifico-tecnico” del “sapere-potere” fosse divenuto effettivamente “universale” anch’esso (cf. ivi, p. 68, dove Cacciari cita sia Leonardo che Erasmo, sul quale ultimo cf. Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Strenna UTET 1968, bel volume che introduce in quell’epoca e in quell’ambiente mentale).
Sempre parlando di Erasmo, Cacciari rifiuta l’equiparazione con Moro, e in questo ha ragione: “Non solo vanno respinte le interpretazioni ‘medievalistiche’ del pensiero di Moro (secondo una prospettiva analoga a certe interpretazioni dell’Umanesimo, come quella di De Lubac), ma anche quelle che lo riducono sostanzialmente a Erasmo” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 132). Dove invece non son d’accordo, è nella sottovalutazione delle vedute di De Lubac sull’Umanesimo, che fu senza dubbio fenomeno più complesso di quanto sembri qui pensare Cacciari, in particolare De Lubac ha studiato Pico della Mirandola (cf. H. De Lubac, L’alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, Edizioni Jaca Book, Milano 1977). Tra l’altro, P. O. Kristeller ha dimostrato come le “rinascenze delle lettere” – o “umanesimi” – si son verificati più volte nel Medioevo, e dunque un “taglio netto” non si può sostenere, da questo punto di vista il vero “taglio” fu proprio l’emersione della tecno-scienza, della “scientificità” come “progetto” di sapere-potere, fondamentalmente estraneo al mondo classico, punto importantissimo questo.
[6]La scienza deve più alla macchina a vapore di quanto la macchina a vapore non debba alla scienza” (Anonimo, sul retro di copertina del libro Y. Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia, Feltrinelli Editore, Milano 1977).  
[7] Cf. A. A. Ianniello, L’imperatore Costantino. Fra storia e leggenda, Giuseppe Vozza editore, Caserta-Casolla 2013.
Interessante osservazione: “se per la Chiesa bastasse uscire dall’età costantiniana, ripudiare il compromesso con un potere esterno, per ritrovare la purezza evangelica  senza affrontare il suo problema di essere società umana […] che incorpora in sé anche la corruzione: come se fosse possibile dare tutta la colpa a Costantino o a una simbiosi col potere da lui inaugurata e sviluppata con diverse declinazioni (Chiesa carolingia, feudale, gregoriana ecc.) sino ai nostri giorni, simbiosi cancellabile con delibere conciliari. Questa visione mi sembra abbia giovato in fondo alle tesi dei tradizionalisti più conservatori che hanno denunciato in queste nuove tendenze (teologie della liberazione, ambientaliste ecc.) il pericolo della trasformazione della trasformazione del cristianesimo in ideologia […]: […] la corruzione non è un male che viene dall’esterno” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., pp. 50-51, parte iniziale di P. Prodi).
[8] Su queste questioni, Cacciari afferma: “non credo che si possa ancor oggi aggiungere molto ai risultati della ricerca di P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Bari, Laterza 1957 (Bologna, Il Mulino 2004)” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 132). Appunto, è “il passaggio dalla magia alla ‘scienza’” il “nodo” – vero -, e tal “passaggio” è stato compiuto all’interno di “certi”, specifici, e particolari “ambienti”, ricollegati alle aristocrazie e alla zona di “contatto” fra le aristocrazie e l’emergente borghesia, spesso in ambienti di noblesse de robe, per intenderci. Ma vi sarebbe molto ma davvero moltissimo d’aggiungervi anche se si andrebbe troppo lontano dall’argomento di questo piccolo post.

[9] Cf. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/europa-neo-nazionalistica-e-prima.html.
[10] Una nota “personale”. Un mio zio aveva sia i libri di Bloch, sia quelli di Lucacs, e ricordo che, seppur non potendo avere all’epoca la piena consapevolezza delle conseguenze e del “non detto” che si celava nella polemica, ebbi quindi modo di legger qualcosa dei due autori; dopo aver letto due loro libri – uno ciascuno - parteggiavo per Bloch, senza dubbi e senza tentennamenti. Sono un bibliofilo, per me detestare un libro è cosa innaturale, non mi spaventa nemmeno il Mein Kampf di A. Hitler, ma solo due testi ho sempre considerato davvero indigesti, e persino detestabili (summiter detestabillimi), La Fenomenologia dello spirito di Hegel, di cui non condivido il messaggio, ma non è per questo che lo detestavo: lo detestavo per la scrittura – non cattiva, pessima (e possiamo simpatizzare per Schopenhauer il quale, dal canto suo, scrive bene), e lo “style” è la vera firma -; e, poi, La distruzione della ragione di Lukacs, per la tesi. Come Marx detestava Saint Simon, così detestavo Lukacs per le tesi e Hegel per lo stile, o molto moderna assenza di stile. “E perché mai Hegel, allora, avrebbe tanto stimato Bacone? Proprio perché anche per lui la nostra Età è segnata dal primato dell’ auctoritas del sapere in quanto scienza, Wissenschaft, dal venir meno del Filosofico-Metafisico, della filosofia in quanto ‘nome d’amante’. Anche per lui la forma-Stato avrà effettuale potestas soltanto se intimamente coerente alla forma dell’impresa scientifica” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 89). In effetti, lo “stato universale” hegeliano è dove quest’impresa “scientifica” raggiunge tutta la Terra (cf. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi Editore, Torino 1948, pp. 63-64). Ma siamo già nello “stato universale”, in tal senso, e che questo non sia avvenuto per mezzo della “ricerca del ‘bene comune’”, ma, piuttosto, per mezzo di “minoranze egoiste” che hanno scatenato la potenza “dell’impresa scientifica” è un fatto storico, mentre chi ha ricercato il “bene comune”, ad esso tentando di sottoporre il principio dell’ “impresa scientifica” ha fallito. E questo non è casuale.
[11] Cf. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/05/andrea-ianniello-baudrillard-la.html.
[12] La si ritrova già in un vecchio scritto di Cacciari in relazione ad “Oriente ed Occidente”, apparso su “La città futura”, una vecchia rivista. In tal vecchio articolo (davvero una “rarità bibliografica”) Cacciari sosteneva che Oriente ed Occidente non dovessero mescolarsi, che la mescolanza era necessariamente solo illusoria, e che ognuno doveva rimanere ben distinto e tuttavia la contraddizione, rimanendo, diveniva produttrice. Insomma, la sua tesi di fondo sul pensiero “negativo”, il punto costante di tutto il suo pensiero, pur nei molti cambiamenti, punto che personalmente non condivido, e sul qual punto non son d’accordo.
Che la città sia sempre stata al centro degli interessi di Cacciari lo si può vedere da molte cose, come dal vecchio libro di Cacciari stesso, la cui copertina si può vedere a questo link. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/09/altre-immagini-dellepoca-di-federico-ii.html. E anche da quest’altro interessante link, una recensione ad un suo libro sulla città: http://www.sololibri.net/La-citta-Massimo-Cacciari.html.
[13] Interessante osservazione di Cacciari, al riguardo di questo testo classico di Weber: “Alla forma dell’utopia credo […] sarebbe stato giusto dedicare un capitolo di Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., p. 132).

[14] Cf. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi editore, Torino 1991 (1948). Il libro si compone di due capitoli: “La scienza come professione” e “La politica come professione”, Cacciari si è riferito al secondo capitolo.
[15] Ivi, pp. 112-113, corsivi miei. Ecco il vero problema dello “gnosticismo”, ricordato – ovviamente in senso negativo – da Vitiello, e qui siamo in questioni storiografiche che andrebbero una volta e per tutte chiarite, in quanto il cosiddetto “gnosticismo” dell’epoca della fine dell’Impero Romano non necessariamente era “dualista”, come si vede dal fatto che il libro di Ireneo di Lione, che in latino è Adversus haereses, “Contro le eresie” (traduzione migliore rispetto a “Contro gli eretici”), in greco suona “Contro la falsa gnosi”, il che dà da pensare in quanto presuppone che ve sia una vera, di gnosi. Il “dualismo” gnostico va ristretto solo a quelli influenzato da ambienti iranici manichei, prima vi è una sorta di “paolinismo” portato all’eccesso. Ma, allora, qual era la vera “posta in gioco”, verrebbe da chiedersi. Ve nera una, e molto chiara: se entrare nell’agone politico o non entrarvi. Che quest’ “entrata” sia detta “bene” o “male” non può esser detto dall’esterno, ma dipende dal “Mandato” che ogni religione ha, quella di mantenersi in ambienti molto ristretti, ed allora entrare nell’agone fangoso della politica è un male; oppure si ha quello di predicare “a tutte le genti”, nel qual caso che si entri in contato con l’agone fangoso politico è semplicemente necessario. Ma questo, a sua volta, ha un costo, altrettanto necessario e necessitato, quello di cui parlava Weber.
[16] Cf. M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi Editore, Milano 2013.
[17] Cf. M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., pp. 130-131.
[18] Cf. ivi, p. 130.
[19] Ibid.
[20] Ivi, p. 131, corsivo in originale. 




_________________________
***
**
*

[i
[i]  Interessante la critica di Scholem a Bloch: “Se un appello alla forma utopica è respinto da Lukacs sotto il profilo della sua coerenza teorica e della sua effettualità politica, esso, negli stessi anni, veniva contestato da Scholem per il suo esplicito richiamo al profetismo biblico. La profezia parla al presente del presente a partire dal Fine, ma il Fine non conosce mediazione dialettica col presente, e in nessun modo è opera dell’uomo che vi agisce [cosa, quest’ultima, verissima, peraltro; nota mia]. L’attesa e la speranza del regno costituiscono l’orizzonte che dà senso alla prassi in atto, ma in nessun modo il Regno può esserne il prodotto [il “discorso escatologico” di Gesù è basato su quest’idea, pur l’uomo potendo partecipare alla preparazione del Regno, ma mai generarlo o attuarlo; nota mia]. L’irrompere del divino nella storia, di cui l’età messianica è il sigillo, è puro evento, in nessun modo prevedibile, né anticipabile [su questo punto la differenza tra concezione cristiana ed ebraica si fa sentire, nota mia]. La speranza non ne è affatto anticipazione, la forma presente in cui noi ora lo viviamo storicamente e nella comunità [e qui, di nuovo, si ritorna alla similarità di concezione fra Cristianesimo e Giudaismo, nota mia]. Tanto più tradisce l’idea messianica ritenere che una ‘classe’ sia la portatrice del suo realizzarsi [e in questo la ragione stava con Scholem, nota mia]. Ciò comporta trasfigurare un soggetto storico in una chiesa di eletti, in una civitas dei, testimone-martire qui-e-ora, nel tempo irredento, della realtà del Regno. Il Messia, come narra la leggenda ebraica che Scholem ama ricordare, vive tra lebbrosi e mendicanti alle porte di Roma, accanto, come antitesi eterna, alla città che ritiene adempiuta (o umanamente adempibile) la Promessa” (M. Cacciari – P. Prodi, Occidente senza utopie, cit., pp. 111-112, corsivi in originale). Quest’accenno al Messia ebraico “che vive tra i lebbrosi” – leggenda talmudica – ricorda il Trittico dell’Epifania (1510 c.) di H. Bosch, in particolare il pannello centrale - l’ Adorazione dei Magi -, oggi al Prado di Madrid, come lo interpreta Maria Grazia Chiappori, che riconosce nel personaggio all’interno della capanna l’Anticristo, il Falso profeta par excellence: “Il più anziano del seguito afferra, quasi trattiene, il Messia per le spalle [ed ecco un altro significato del katèchôn, “colui” o “ciò” che trattiene, riecheggiato da S. Quinzio laddove sostiene che a fermare l’Anticristo non è l’ Imperium Romanum – come argomenta la maggior parte dei Padri della Chiesa -, bensì il culto rabbinico, le due idee, in realtà, non escludendosi affatto per principio; nota mia]. La catena d’oro che cinge il braccio del Messia di Bosch è quella stessa che imprigiona il Messia ebraico affinché questi, impaziente d’aiutare il suo popolo, non inizi la sua opera di redenzione prima del tempo stabilito. Il fatto poi che il Messia sia affetto dalla lebbra – lo provano il colore opalescente della pelle e la piaga sulla gamba – trova una precisa corrispondenza nel Talmud, dove Elia dichiara: ‘Egli sta seduto tra i poveri lebbrosi … ’. per il Cristianesimo il Messia ebraico era l’Anticristo, l’impostore per eccellenza, il falso profeta che verrà, prima della fine dei tempi, a tentare gli uomini, a minare la loro fede. […] Nel Vangelo secondo Giovanni (9, 43) Gesù aveva detto: ‘Io son venuto nel nome del Padre e non mi ricevete, se un altro verrà in proprio nome lo riceverete’. Nella leggenda primitiva l’Anticristo altri non era che il diavolo in persona, sotto mentite spoglie, ma nella tradizione medioevale – risultante da una complessa speculazione teologica – è ormai considerato come un uomo, anche se di natura abnorme e diabolica, perché concepito […] sotto la ‘protezione’ di Satana. Nato a Babilonia [simbolicamente!, non necessariamente in senso letterale!] poco prima del Giudizio Universale [si noti], verrà circonciso a Gerusalemme, dove si presenterà ai Giudei come il vero Messia. Emulo di Cristo, egli cercherà di ripercorrerne la vita e di riprodurne, valendosi delle arti magiche, i miracoli. I suoi prodigi saranno frutto della magia nera” (M. Bussagli – M. G. Chiappori, I Re Magi. Realtà storica e tradizione magica, Rusconi Libri, Milano 1985, pp. 252-253, corsivi miei). Ma è altrettanto (se non ancor più) chiaro, come s’è detto in questo breve studiolo, che tali “arti magiche” illusorie - che non significa “prive d’effetto” e solo “psicologiche” come vorrebbero i moderni ma che non hanno una base “nell’Essere”, una base ontologica, ma son solo proiezioni della “volontà” supportata da “ausili ‘sottili’”, per parlare in “gergo” magistico -, che tali arti magiche dovranno supportare una predicazione, come diceva Signorelli, e tale “predicazione” andrà nella direzione della falsa profezia, come s’è detto, e si ribadisce qua, nel presente studiolo.

La tradizione cui fece riferimento Bosch non è poi così lontana da quella cui faceva riferimento Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio dello splendido duomo di Orvieto, nel dipinto Predicazione e fatti dell’Anticristo, che anzi è precedente all’ Adorazione di Bosch, in quanto il ciclo d’affreschi di Signorelli data dal 1499 al 1502, per quanto il pagamento a Signorelli slittò, in parte, al 1504. 

Link (ambedue da Wikiedia Commons, il secondo dà immediato accesso all’immagine stessa, del primo è riportato soltanto l’url).  

Predica e fatti dell’Anticristo:

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/2/29/Luca_signorelli%2C_cappella_di_san_brizio%2C_predica_e_punizione_dell%27anticristo_01.jpg/800px-Luca_signorelli%2C_cappella_di_san_brizio%2C_predica_e_punizione_dell%27anticristo_01.jpg. Ed un particolare, sempre da Predica e fatti di Signorelli, l’ Anticristo che ascolta il diavolo sussurantegli le parole che daranno inizio all’esplosione del mondo.