venerdì 11 agosto 2017

La “razionalità”, la canapa”, e la fine dei Vichinghi di Groenlandia








“Irrazionalismo rispetto a quale razionalità? Ma è necessario – anche se impopolare – innanzitutto […] affermare, in sostanza, che la connotazione in negativo (ir-razionale) o viene fatta in relazione al suo contrario positivo (razionale) o non ha alcun significato. Se pertanto questi gesti definiti irrazionali (rottura della vetrina, distruzione dell’automobile) vengono intesi come la negazione di un universo positivo/razionale, coerenza vuole che si assuma quel medesimo universo e se n’esaltino i valori”[1].

“Dal principio del secolo scorso [il XIX] si è sempre avuto, in Europa, l’abitudine di considerare gli uomini e gli avvenimenti d’Italia come se essi fossero generati da una logica e da un’estetica antiche. Di questa maniera di considerare la storia dell’Italia moderna è responsabile in gran parte la naturale inclinazione degli italiani alla retorica, all’eloquenza e alla letteratura: ciò che è un difetto, di cui non tutti gli italiani sono malati, ma di cui molti non guariranno mai. Benché un popolo si giudichi dai suoi difetti, piuttosto che dalle sue qualità, mi sembra che nulla possa giustificare l’opinione che gli stranieri hanno dell’Italia moderna […]. Per comprender bene le cose dell’Italia dei nostri giorni bisogna considerarle […] dimenticando che vi sono stati dei Greci, dei Romani e degli Italiani del Rinascimento”[2].

“Sebbene io mi proponga di mostrare come si conquista uno Stato moderno e come si difende, non si può dire che questo libro voglia essere un’imitazione del Principe di Machiavelli, sia pure un’imitazione moderna, cioè poco machiavellica. I tempi, ai quali si riferiscono gli argomenti […] del Principe, erano tempi di così grande decadenza delle pubbliche e private libertà, […] che sarebbe recare offesa al lettore, uomo libero, il prendere a modello la famosa opera di Machiavelli per trattare alcuni fra i problemi più importanti dell’Europa moderna”[3].

“Non possiamo fare a meno di domandarci come dovremmo ragionevolmente giudicare la dottrina di Machiavelli nel suo insieme. Il modo più semplice per rispondere a questa domanda sembrerebbe il seguente. Lo scrittore a cui Machiavelli si riferisce e rimanda più frequentemente, con l’ovvia eccezione di Livio, è Senofonte. Ma fa riferimento a due soltanto degli scritti di Senofonte: la Ciropedia e il Gerone; non presta attenzione ai suoi scritti socratici, cioè all’altro polo del suo universo morale: Socrate. Metà di Senofonte, secondo Senofonte la migliore, è soppressa da Machiavelli. Senza correre rischi possiamo dire che non c’è fenomeno morale o politico che Machiavelli conosce o per la cui individuazione è famoso, che non fosse perfettamente noto a Senofonte […]. E’ vero che in Machiavelli ogni cosa appare sotto una luce nuova, ma questo è dovuto non a un ampliamento di orizzonte, quanto piuttosto a un suo restringimento [corsivi miei]. Molte scoperte moderne che riguardano l’uomo, hanno questo carattere [corsivi miei]”[4].

“Erano le nove di sera del 2 agosto – l’agosto più terribile della storia. Si sarebbe potuto pensare che già la maledizione divina gravava pesantemente su un mondo degenerato, l’aria afosa e stagnante era pervasa da una quiete impressionante, un senso di attesa indistinta. Il sole era tramontato da un pezzo ma lontano, all’orizzonte, uno squarcio rosso sangue sembrava una ferita aperta. Le stelle brillavano in cielo e nella baia occhieggiavano le luci delle imbarcazioni. I due famosi tedeschi erano appoggiati al parapetto di pietra del viale alberato dando le spalle alla casa lunga, bassa, col tetto a spioventi, e guardavano in basso, verso la spiaggia ai piedi dell’alta scogliera dove, quattro anni prima, Von Bork si era rifugiato, come un’aquila errante. Con le teste ravvicinate, parlottavano in tono sommesso e confidenziale e, viste dal basso, le estremità luminose dei sigari accesi potevano sembrare gli occhi di bragia di una qualche malevola creatura che scrutasse nel buio”[5].








a. Come si è detto al termine del precedente post[6], ecco il post lungo, a conclusione di questa “tornata”, salvo, ovviamente, che gli eventi accelerino improvvisamente il loro passo lento. Naturalmente, lasciandosi aperta la porta per anche altri post eventuali, recensioni ed altro che si rivelasse temporaneamente necessario; ma qui terminiamo una “certa”fase di “orientazione” della riflessione.
Molte cose sono state dette, molto di più di quel che possa sembrare ad un primo sguardo superficiale; ma molto altro, nessun dubbio al riguardo, ci sarebbe stato da dire (anche se, in maniera minore, spesso trova posto nei Commenti), tuttavia sia il mezzo – cui repellono articoli troppo lunghi -, sia ostacoli tanto temporali (la prudenza) che climatici (in quest’estate troppo calda, quando le macchie solari sono così deboli: chiaro che vi sia qualcosa di “artificiale” ormai da qualche tempo intervenuto, un “qualcosa” dovuto anche a sostanze chimiche, pure a quell’elettromagnetismo stagnante col quale stanno impestando l’aria) han costituito un “limite” insuperabile. Tra le altre cose, che i ghiacci si sciolgano senza esser rinnovati è un’immagine precisa della crisi della Traditio: è come attingere ad un conto in banca in cui non si può più depositare. Interessante sottolineare due cose: 1) che solo quando la circolazione generale sia stata modificata, è cambiato veramente: violenti scarichi – comparabili alle guerre in atto, o anche alle rivoluzioni storiche, delle quali si dirà in nota – non han potuto cambiare la via generale; 2) che il cambiamento è iniziato dall’Alto, dalla montagna, dove si era installata una cella pesantissima di aria bollente proveniente dal Sahara. Si estenda questo paragone alla situazione “tradizionale” del mondo di oggi: nulla servirà davvero, e tutto sarà solo uno scarico temporaneo della tensione, finché la circolazione “in alto loco” non sarà stata cambiata. E questo, a sua volta, può accadere solo e soltanto quando questa “bolla fissa” che opprime un intero pianeta abbia esaurito il suo potenziale. Si tratta di un male profondo, che ha origine “in alto”, una spaccatura intera che ha aperto la via all’emersione di forze dal basso, e nulla si risolverà finché non cambierà questa situazione “in alto”.
In ogni caso, certi “punti fermi” son comunque stati posti in questo blog, nei post con tema più generale, nonostante tutto, nonostante il vento dal Sahara, finalmente terminato, vento caldissimo chiamato Lucifero: nomen omen.



b. I “non garantiti”, che all’epoca venivano “contenuti” in un’ottica “marxista”, da quel tempo ad oggi – ben trentanove anni fa!! – son divenuti legione. Eppure, niente di particolar è avvenuto, e il dissenso ha preso vie del tutto compatibili con l’assetto della divisione del potere oggi. Molto ma molto significativo: come ho più volte detto, la soluzione alla dissoluzione non può essere “politica”, ma solo e soltanto “meta politica”[7].
Quanto al significato delle frasi su riportate, chiaro che l’equazione valori economici = razionali sia sempre stato il cavallo di battaglia del capitalismo come sistema storico, non come schema teorico. Le “sinistre” hanno fallito nella storia perché assunto quello stesso insieme valoriale tentando di rovesciarlo “dialetticamente”: non ha funzionato, perché non poteva farlo. Il mondo borghese, al contrario, rompe decisamente con il mondo aristocratico, con quei valori, cioè, mentre il mondo proletario tenta la sua liberazione nei termini dei valori economici, ovvero il cavallo di battaglia delle borghesie: il fallimento era già inscritto sin dal principio.
Ciò non toglie, però, due cose: 1) che il “comunismo” come sistema politico sia stato importante nel consentire a vecchi imperi preindustriali di entrare nelle guerre dell’età industriale: in tal senso, è stato un successo, attestato dal permanere della mummia di Lenin a Mosca, ma stavolta mantenuta da leader neonazionalisti[8] (questo può piacere o non, ma è un fatto, giudicabile, ovviamente, da punti di vista contrari, che però rimane tale); 2) che dopo la “dottrina degli shudra” (Guénon), ovvero dell’ultima “casta”, quella di chi ha solo il suo lavoro da poter offrire, oggi siamo nel mondo del chandâla, del cosiddetto “sottocasta”, e cioè di colui che, secondo le dottrine indù, sarebbe figlio di una donna di casta superiore e di un uomo di casta inferiore, evidente simbolo di come l’intelligenza sia indirizzata verso scopi inferiori, utilitaristici e di mera scalata sociale. Si tratta di un’immagine precisissima del nostro presente.
In altre parole, l’ultima “casta”, quella “proletaria”, ancora possedeva un valore “forte”: il lavoro. Il cosiddetto “sottocasta” è, invece, un arrivista. Ha fatto propri i valori “borghesi”, ma senza l’etica borghese, senza la famosa “etica protestante” di cui parlava Weber. Il nostro presente, insomma, è questo, per lo meno dagli anni Ottanta del secolo scorso, che sono stati l’esaltazione di quest’assetto sociale che, oggi, sta collassando, senza che, tuttavia, alcun altro schema valoriale diverso venir fuori.
Anche quest’ultimo un mero fatto. Questo “mero fatto” non induce certo ad estrapolare “trend positivi”, come dicono gli agenti di borsa, paragone ironico, ovvio … Il lavoro non poteva resistere: esso è stato sconfitto come progetto, e qui penso all’ “operaismo” anni Settanta, affatto dimentico delle trasformazioni che il System stava, proprio in quegli anni, portando avanti, e che sono state documentate da Baudrillard, illo tempore, solo che gli “operaisti” erano sordi: idolatravano una particolare fase dello sviluppo capitalistico. 


g. Veniamo al punto: due recensioni. Come ben si sa, la pianura campana, ed anche tanti altri luoghi, ma qui con andamento più rapido e con un vero e proprio “crollo sociale”, avvenuto, è un “non luogo”; per dirla con M. Augé: “Oggi Marcianise è al centro di un’economia guidata dalla presenza dei ‘non luoghi’ come negli anni ’90 del secolo scorso affermava Marc Augé sono ‘spazi privi di legami culturali con il contesto circostante e la sua storia’. Danno servizi ai consumatori. Senza dare nessun significato negativo a questa realtà”[9]. Ebbene, prima vi era la cultura della canapa, non il mero uso economico della stessa. Quanto ai non luoghi, non solo, qui se ne dà un pesantissimo senso negativo, ma essi sono il compimento di quel che Wallerstein chiama il “progetto geoculturale” (o anti culturale, direbbero alcuni) della civiltà capitalistica: la trasformazione in non luogo dell’ intero pianeta Terra, obiettivo non raggiungibile pienamente, ma che, nondimeno, ha avuto effetti pesantissimi sui territori, anche se non ogni territorio ne ha subito così fortemente l’impatto. Questo territorio ne ha subito l’impatto in maniera precisa, durevole, assoluta. Ragionare sul perché, sarebbe lungo anche se interessante, però verremmo meno a quanto detto all’inizio: che il mezzo e le condizioni climatiche, sia di clima culturale che di clima meteorologico, sono molto avverse.  
Riguardo ai territori dell’effettiva “Terra di Lavoro”, la zona fra Napoli e Caserta – oggi “Terra dei fuochi”, non a caso -, va notato che la gran parte di questi territori era soggetto alla coltivazione della canapa e, poi, del tabacco. Ora, ambedue le massicce produzioni agricole in una terra fertilissima, avevano, come “partnership” economica e come acquirente, lo stato, sia per la canapa che per il tabacco, ovviamente con modalità e per delle ragioni diverse. Ma resta questo fatto, che va ampiamente sottolineato. Quando, per vari motivi, che sarebbe lungo discutere, lo stato “dismette” questi territori come pure chiude la Casa per il Mezzogiorno, e cioè, secondo il dominante paradigma liberista, rinuncia a qualsiasi ruolo d’indirizzo e di controllo dell’economia, chi prende, allora, il controllo di questi territori sono le cosiddette “organizzazioni criminali”, da più d’un secolo fortissime: ed ecco la “terra dei fuochi”. Nei giorni in cui il Vesuvio sembrava eruttasse per causa d’incendi a iosa, con la macchina passavo per la zona della cosiddetta “terra dei fuchi [sic]”, per la precisione i “Regi Lagni”, zona in quel mentre punteggiata d’incendi venefici che alzavano i loro neri fumi nell’aria impestata d’afa. Da un bel po’ “The Waste Land” non è più in Inghilterra, è qui, alla faccia del “solare” Sud sorridente – d’altro canto, secondo Holmes, i paesi “latini” (= del Sud Italia) sono “i luoghi tipici del delitto” -; ma questi luoghi non hanno avuto nemmeno la fortuna di trovare una penna come quella di Eliot: è necessaria la penna di un poeta di un genere molto particolare, significativamente spregiato da E. Canetti, per saper descrivere l’atmosfera, non solo descrivendo le cose[10]. Altro che pizza e mandolino … Personalmente rinuncio a descrivere cose del genere: non sono in possesso della penna da poeta “di un genere particolare” che ci vorrebbe: “Ogni uomo dovrebbe conoscere i propri limiti”, disse l’ispettore Callaghan, bella frase in un film mediocre (intitolato “Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan”, film del 1973, significativo). Parlerei, a tal proposito, di “eversione dello stato” dopo l’ “eversione della feudalità”. Noi veniamo dopo l’eversione dello stato, cioè delle sue proprietà, perché questo è il processo che abbiamo visto, culminante nella crisi del 2011, punto culminante che, a sua volte, segue un lungo processo. Ed ora? Cosa succede ora? Ecco un altro tema molto interessante, che qui si può segnalare solo e soltanto en passant, sebbene varie risposte siano state accennate, almeno parzialmente dette, anche in questo post.
Detto ciò, bisogna essere cristallini a tal proposito: avere un giudizio molto ma molto negativo di tale “progetto geoculturale” non significa l’essere “nostalgici”, nulla si ripete: ma il rispetto della storia, del passato, significa l’unica possibilità concreta di poter proiettarsi nel futuro; chi, al contrario, schiaccia tutto sul e nel presente vuole che tale presente sia “eterno”, insomma il “sethianesimo” più evidente (tra l’altro, vi è il volto “distruttore” di Apollo, ben lungi dall’esser solo il dio del “sogno” e dell’estetica, come voleva il Nietzsche de La nascita della tragedia, volto che si nota nell’ Iliade (I, vv. 1-56) dove Apollo, col suo arco saettando, sparge la peste, morte a distanza, indiretta, sul e nel campo greco[11]).
In altre parole, trattasi della tendenza oggi dominante a prendere una determinata situazione storica come “la” civiltà tout court e volere che nulla cambi, ma cambiando sempre tutto, purché non intacchi il punto centrale; nella trasformazione dell’intera Terra in un non luogo e nel cambiare tutto perché nulla cambia, vedo l’ essenza della civiltà capitalistica. Attenzione, di civiltà bisogna parlare, non, però, di cultura: cultura e civiltà, spesso sono andate assieme, ma non necessariamente. La civiltà sono i mezzi, le strutture; la cultura la vita spirituale, quel che orienta la vita in qualche modo. Esiste, senza dubbio, una civiltà capitalistica. Ma esiste una cultura capitalistica, se per cultura intendiamo una solida visione del mondo, una concezione precisa dell’uomo e del suo posto nel Cosmo?? Non esiste.
Significativo che simbolo della civiltà, secondo M. Schneider, sia il coccodrillo, e si dice, in qualche mito di popoli etnici, che alla fine verrà ucciso … 


d. Dunque senza nessuna “nostalgia”, tuttavia nel profondo rispetto del passato: “Ma si può riprodurre una civiltà? Si può studiare, interrogare, documentare, cioè conoscerla: non è solo possibile, ma necessario, ma mai comunque farla tornare”[12]. E tuttavia, è altrettanto vero che: “Il passato, anche se dimenticato, non è mai morto[13].
Sorge un problema, però: se tanti luoghi son divenuti non luoghi, com’è che la Campania “storica” (quella “storica”) sia andata incontro ad un vero e proprio crollo, e com’è che in se stessa non ha trovato alcuna seppur minima resistenza a questa vera e propria dissoluzione dei legami sociali? Peggio che altrove, più rapidamente che altrove, una sudditanza mentale quasi assoluta, una resa completa e, direi, che l’intero Sud, con poche eccezioni qua e là, è questa la strada che ha preso[14].
Vi sarebbe molto da dire, a tal proposito, ed ovviamente chi scrive ha un’idea ben precisa, che qui, per i piccoli fini del blog, si può soltanto brevemente suggerire, nemmeno delineare a grandi linee.
La risposta è una domanda: com’è che, in linea generale, l’opinione “conservatrice” nel Sud sia sempre stata maggioritaria – in tutta Italia senza dubbio è così – ma nel Sud particolarmente forte? E, nel contesto casertano, di un bianco cadaverico, il partito dominante, prima della DC, era il partito liberale? Liberale nell’accezione europea, non americana, e dunque di “destra”.
Questo ci parla di una frattura profonda tra la borghesia e le classi popolari, che un tempo erano assolutamente quelle contadine (oggi non parlerei proprio più di “popolo”, vi è solo massa). Questa è una caratteristica profonda della borghesia meridionale, quella di essere “compradora” (lo notava lo stesso Lenin molti anni fa: e non è cambiato).
Nondimeno alcuni riferimenti “pasoliniani” del testo di Zarrillo sono assai interessanti, come quando riassume la lunga storia della canapa, che proviene dagli Sciti (Scythae) che la diffusero nella Tracia, dalla quale Tracia si diffuse poi sia in Russia e Lituania, a nord, che fra Greci e Romani, a sud, per poi stabilizzarsi nel Piemonte e, in seguito, di qui diffondersi in Emilia, Campania, Veneto ed Umbria[15].
Tuttavia: “In Terra di lavoro diventerà la coltura principale, collocandosi al secondo posto nella produzione nazionale e la sua ricaduta sarà decisiva per le sorti dell’economia della Provincia. La lavorazione della canapa era accompagnata da canti o da racconti, che in genere servivano a esorcizzare la durezza del lavoro”[16]. Su questo bisogna esser chiari, due volte. In primo luogo, la condizione di durezza del lavoro, come sfruttamento di manodopera, peggiora, nelle campagne, con il sorgere del mondo moderno, rispetto al Medioevo. Secondo punto, non è che la “durezza”dello sfruttamento sia oggi minore, ed anche la menzione della fatica solo fisica va posta sempre a confronto con le migliaia di disperati che vivono nel mondo, di cui solo una piccola parte vien detta “migranti”: la durezza dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo rimane, anzi forse accresciuta, di certo coperta, d’ipocrisie, nonostante alcune parti del mondo abbiano visto, in tempi non lontani, la diminuzione della durezza della relazione sociale.
I luoghi dove la relazione sociale mostra tutta la sua durezza di sfruttamento, semplicemente, si son trasferiti altrove, ma non son affatto spariti …
Uno spaccato di vita contadina è tutto il cap. VI del libro di Zarrillo, che presenta il teatro contadino nella sua relazione con la canapa e con l’uccisione del maiale.
L’uccisione del maiale era una festa grande, e, dai testi, opportunamente riportati dall’autore[17], si evince una relazione complessa con tal animale, la cui uccisione consente sì di nutrirsi di carni che danno energia, eppure si ha comprensione verso l’animale, con il quale, anzi, si era instaurato un “rapporto di amicizia”.
Qui sarebbe lungo parlare di queste cose, in tempi di “vegan”, ma è consigliabile dare un’occhiata a qualche documentario dove qualcuno ha esperito (il rito de) la vita di “cacciatori raccoglitori” per vedere come le “certezze” del civilizzato crollino a fronte della natura così com’è, non del “parco pubblico”, che i civilizzati troppo spesso credono che la natura sia. Il parco pubblico è, infatti, una creazione umana, non ha niente a che spartire con una foresta o un bosco.
Nella natura si gioca con le sue leggi, non con le tue.
Senza per questo giungere all’estremo opposto della natura come “male”, in tali documenti si vede chiaramente che non c’è alcuna riprovazione, da parte di tali popoli, verso l’animale ucciso, anzi è vero il contrario; e non vi è nemmeno quel sentimentalismo proprio ai “nostri” contemporanei verso gli animali. Già in un’altra epoca, qualcuno parlò, giustamente, di “animali malati d’uomo” (P. Diolé, in un libro pubblicato dalla Rizzoli nel 1975).
E questa malattia è quella che altera e non rispetta l’effettiva natura dell’animale, ma tende invece ad umanizzarlo, così alterandolo definitivamente. Essa la si vede al massimo nel peggior prodotto dell’umano addomesticamento: il cane. Vi sono infatti cani bisbetici, stizzosi, che contraggono le pulsioni devianti dei loro sedicenti “padroni”, spettacolo pietoso. Proprio il latrato petulante, isterico, malato di questi cani attesta che c’è qualcosa di profondo che non va. Qual era, invece, la risposta che si dava la cultura contadina a questa duplicità di atteggiamenti: dover sfruttare – perché questo è – un animale per nutrirsene, e tuttavia divenirne amico: questa contraddizione necessitava di un canale d’espressione di natura emozionale, quel che oggi manca: ed ecco il teatro contadino del maiale. Di certo, un cittadino, un civilizzato riderà di queste cose, ma, personalmente, rido di lui.
Tornando a come la cultura contadina si spiegasse questa duplicità, che è un fatto innegabile, così essa pensava: “la morte di un animale favorisce la nascita di un altro, concetto che lega la cultura contadina ai meccanismi di conservazione delle specie viventi, del ciclo vitale e degli stretti legami tra vita e morte, concetti che poi si riassumono nei versi finali del primo atto, cantati insieme dai due cori e dagli attori: E tu ci rai ‘a carne/ E tu ci rai ‘a vita/ E tu ci rai ‘a forza/ Tu muore e nui campammo/ Ro puorco nun ci scurdammo/ Ro puorco nun ci scurdammo/ Ro puorco nun ci scurdammo[18]. “Del porco non ci scordiamo”, ripetuto tre volte per rafforzarlo: è la memoria che fa andar oltre la morte. Non è come col cane, che diventa troppe volte una proiezione dell’uomo e delle sue nevrosi, ma vi è qui del rispetto, quel che manca precisamente a tutti coloro i quali non sanno dove sia il rispetto della natura, negli animali, nelle piantesempre dimenticate -, nei luoghi, in ogni cosa. Ecco, la chiave sta nel termine rispetto.
Troppe volte la natura è una mera proiezione dell’ ego, e cioè quell’atteggiamento di sfruttamento, senza rispetto, che è la caratteristica distintiva della civiltà capitalistica rispetto a tutte le altre. Né può esser casuale come gli animali della dissoluzione, della decomposizione, prosperino sotto il regime della civiltà capitalistica: chiaro ed inequivocabile segno. Rispettare significa comprendere che l’ altro non è la mera proiezione dei tuoi desiderata, che non può essere la pantomima dei tuoi desideri.
L’animale che subisce i tuoi stati mentali, le tue nevrosi o che deve star lì ai tuoi ordine, non è rispettato: è sfruttato.
E qui vediamo l’ “essenza” della relazione sociale di sfruttamento: l’altro è una mia proiezione, deve “servire” all’individuo – che si assolutizza –, deve “servirgli” anche solo per “fargli compagnia”, per alleviarne la sensazione di solitudine. Ma la natura è “altra da te”, “buono” o “cattivo” non significa molto.
I naufraghi della baleniera Essex rispettavano l’oceano, che pure li trattò, letteralmente, “a pesci in faccia”. La differenza con gli uomini contemporanei sta nel fatto che non vivevano nella “bolla tecnologica”, dove la natura è un parco cittadino, dove, al massimo, la vedi in un documentario, o te ne parla qualcuno che ha fatto “un viaggio” con più o meno “tutti i comfort”, ma, se dovessi confrontarti con la natura per davvero, essa farebbe polpettine inacidite di te in men che non si dica. Quando, dunque, uno di questi parla di ciò che non può capire, menando vanto di una tecnica che non signoreggia, che non ha costruito lui, che non ha la più pallida idea di come funzioni, viene da sorridere. Non so chi scrisse che quelli che con la tecnologia hanno la relazione meno nevrotica sono i contadini (vecchio style, oggi ci sono imprenditori dell’agricoltura, che niente hanno a che spartire con una certa cultura): ma non è certo un caso.
Come osservava Thuiller, ben venti anni fa, ormai, comunque, oggi, non può esistere il contadino come fatto culturale; egli ha un ruolo residuale: la civiltà capitalistica ha preso tutt’altra direzione.
Per sempre.
Quest’ultimo termine significa: che non si può re-vèrtere, ri-girare (attorno ad un vertice, per estensione di significato = tornare indietro).


e. La fine della civiltà contadina, “celebrata” in Italia, prima, dalle “orge” della “civiltà dei consumi”, e, poi, dalle tristezze della civiltà dell’elettronica – e dell’elettromagnetismo stagnante tutto impestante –, il primo essendo il momento “caldo” ed il secondo quello “freddo”, la fine della “civiltà contadina”, che noi abbiamo esperito, ci porta quindi ad esaminare qualche altra fine.

Per caso, su di una ben nota rivista, si parla di un’altra fine, ormai remota nel tempo: quella dei Vichinghi della Groenlandia. Caso interessante di “fine”, molto dibattuto, è stato, infatti, quello dei Vichinghi di Groenlandia, la cui comunità risale intorno all’anno 1000 e, per la fine del Quattrocento, era stata abbandonata. Ebbene, si sa che quest’interpretazione data finora è sbagliata, in quanto si pensava che fosse stato il solo loro voler mantenere lo stile di vita basato sui pascoli, che li avevano portati lì, a generare questa caduta, assieme al noto peggioramento del clima, chiamato “Piccola età glaciale”, che inizia con la seconda metà del XIV secolo e termina con la prima metà del XIX. Certo che il clima vi ha inciso non poco, ma recenti scoperte dimostrano che, invece di esser rimasti solo allevatori, essi appresero delle tecniche dai vicini Inuit e si spostarono verso l’uccisione dei trichechi, per esempio. Dai trichechi, poi, essi traevano quell’avorio che, all’epoca, era molto ricercato in Europa.
Tra l’altro, proprio i cambiamenti di moda, che resero l’avorio meno centrale per le classi agiate, contribuì non poco alla crisi delle comunità groenlandesi. Pertanto è stato un insieme di fattori a portare a quella crisi.
Il caso è piuttosto interessante perché la civiltà contadina è convissuta con quella industriale per tanto tempo ed è stata distrutta solo e soltanto quando quest’ultima è divenuta civiltà postindustriale, il che davvero è molto ma molto significativo. In poche parole – ma pure qui ci sarebbe d’approfondire –, il mondo contadino conteneva in sé uno sbocco: la civiltà industriale.
E gli scandinavi di Groenlandia pure avevano uno sbocco: l’Europa. Noi, al contrario, non abbiamo alcuno sbocco, ed è questala” Fine. Se uno volesse, e realmente, capre che cos’è “davvero” la “Fine”, dovrebbe pensare a questo: è l’assenza di sbocco.
“Il peggioramento del clima, i cambiamenti delle mode e della politica, la diffusione della peste e l’arrivo degli invasori costituivano nel loro insieme un problema mai affrontato dai vichinghi, che si trovavano in una situazione non gestibile dal loro tradizionale sapere ecologico. Come risultato, i groenlandesi si trovavano a dover prendere decisioni difficili su come mantenere in vita la loro società. Continuare con rinnovata tenacia ad adottare strategie la cui efficacia era già stata comprovata, come la caccia comunitaria […]? O invece sviluppare nuovi adattamenti in risposta alle nuove sfide? Secondo Arneborg e McGovern, le testimonianze archeologiche indicano che i vichinghi della Groenlandia si concentrarono sulla caccia e continuarono sino alla fine a fare ciò che aveva funzionato così bene all’inizio del periodo di colonizzazione. I proprietari terrieri più facoltosi, addirittura, continuarono ad abbellire le proprie chiese quasi fino al momento in cui le colonie furono abbandonate, cosa che potrebbe costituire di per sé parte del problema”[19].
Non poterono, così, che tornare in Europa: “E’ possibile che, a metà del Quattrocento, non ci sia stato molto da scegliere. Anche i proprietari terrieri con le fattorie più grandi e le chiese più belle, nel momento in cui si fossero trovati di fronte alla possibilità di morir di fame, o di essere uccisi in battaglia, avrebbero dovuto interrogarsi sull’opportunità di fare i bagagli, salire su una barca e tornare in Europa. Eppure questo avrebbe potuto rivelarsi un rimedio anche peggiore del male: sarebbero ritornati in un’Europa che era parte di un nuovo sistema economico, in cui non c’era posto per cacciatori di foche e trichechi.
I vichinghi possono anche aver conquistato la Groenlandia ma, alla fine, sono stati sconfitti dalle forze del mondo che si trovava al di là delle sue coste ghiacciate”[20].

Di fronte ad una sfida esiziale, oppure ad un insieme di sfide che si assommano in un problema esiziale – com’è il caso del “nostro” mondo di oggi -, le società reagiscono perseverando “con rinnovata tenacia” sul cammino che le ha portate dove sono, a quel “nodo” e in quello scacco.
Esse tendono, dunque, a ripetere quanto ha avuto successo in altra epoca, dimenticando che il momento è cambiato e che le vecchie strategie non possono più funzionare, per lo meno non con la stessa efficacia.
In poche parole, per dirla con il professor Dupin: “Ogni cultura nasce da certe scelte e, nel bene e nel male, si spinge sempre fino al limite[21]. Ed è così. Solo che, per noi, non c’è più alcuna Europa, dove poter “tornare” …
Il sorriso, “quel” sorriso ricordato da Colli in una nota precedente, è lo stesso dell’Apollo di Veio (aplv veiis), e con quello si vuol qui terminare, poiché, per parafrasare Eliot: “This is the way the world ends, not in a bang, but in Apollo’s smile[22]


Andrea A. Ianniello

 


[1] G. Lerner, L. Manconi, M. Sinibaldi, Uno strano movimento di strani studenti. Composizione politica e cultura dei non garantiti, Feltrinelli Editore, Milano 1978, pp. 58-59, corsivi miei. E l’hanno fatto: noi viviamo nel mondo in cui si sono assunti ed esaltati quei valori, anche, se non soprattutto, da parte delle cosiddette “sinistre” con lo zelo del parvenu. Quanto al razionale/irrazionale, chiaro che sia un artifizio retorico in cui “razionale = buono” ed “irrazionale = cattivo” queste le categorie dell’epoca, dopo seguite da parallele opposizioni cosiddette “manichee”, tranchant, nette, assolute. Ma l’essenza non è cambiata, anche se non c’è alcuna “essenza” in queste semplicistiche equazioni, essendo l’essenza ciò senza cui niente l’è senza.
[2] C. Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Adelphi Editore, Milano 2011, pp. 199-200. Ricordandoci che il libro appena citato di Malaparte è del 1931 (!!), quel che qui Malaparte diceva è ancor più vero al giorno d’oggi, basti vedere come gli italiani trattino le antichità che risiedono, per loro inespiabile sfortuna, nel suo territorio: macchine per soldi. Stop. E questo è il massimo cui giungono, dopo una sforzo colossale, ma colossale davvero. Nulla, in realtà, lega gli italiani di oggi a quel passato: i casi macroscopici di Venezia, in primis, poi Firenze, Roma – troppo magniloquente per l’Italia piccola piccola -, in misura minore Napoli, lo attestano “al di là di ogni ragionevole dubbio”, per ironicamente usare la “frase fatta” dei telefilm americani. Ma, in piccolo, Caserta e la Reggia sono lo specchio preciso di questa cesura, che rende gli italiani dei diseredati mentali, che hanno così profondamente introiettato la logica de-localizzante del tardo-capitalismo “globalizzato” da non esser più legati al loro passato, tanto buono che cattivo.
Il libro appena citato di Malaparte, pur avendo il suo lato valido – per esempio, vide chiaramente che Hitler avrebbe scelto la via parlamentare –, pure contiene degli errori, per esempio ricostruisce molto bene gli eventi dell’Ottobre di cento anni fa, la Rivoluzione del 1917, e riconosce che Stalin era restio e che tutto il merito (per alcuni la colpa) va ascritto a Lenin e Trotzky, e però immagina grossi contrasti fra questi due, il che, in quel preciso momento, non era vero. Lo stesso Trotzky critica esplicitamente Malaparte, in un passo della sua Storia della rivoluzione russa, perché queste son le tre tesi di Malaparte: 1) che le vecchie misure di polizia sono inutili a fronte di un colpo di stato “moderno”, verissimo, e che quindi la vecchia mentalità di polizia che si aspetta barricate e l’assalto ai palazzi del governo sbaglia per principio; 2) un conto è il colpo di stato “moderno” ed altro il complotto per impadronirsi del Parlamento, come han fatto, seppur con modalità diverse, tanto Napoleone che Hitler; 3) che un colpo di stato sia un fatto “tecnico” (tesi principale), slegato dalle condizioni concrete. Proprio quest’ultimo punto è stato quello – giustamente – criticato illo tempore da Trotzky.
Le osservazioni che Malaparte riporta, sia di Lenin che di Trotzky, a riguardo dell’incapacità da parte dei partiti comunisti dopo la Prima Guerra Mondiale d’impadronirsi del potere, in una situazione favorevole, a causa di una scarsa volontà e di una quasi nulla conoscenza della “tecnica del colpo di stato”, sono vere. Ma quel che Trotzky rimproverava giustamente a Malaparte è che una tecnica senza le condizioni adatte risulta fallimentare, soprattutto senza il consenso, da ottenersi prima di agire, punto importantissimo.
In poche parole: ci vogliono ambedue, sia la tecnica dell’insurrezione sia la situazione favorevole. In mancanza anche solo di una di queste due parti, è assicurato il fallimento. Non basta la situazione favorevole, basta la capacità tecnica. Per questo i “colpi di stato” coronati da successo son sempre stati pochi, molto pochi. Malaparte, in realtà, voleva suonare una nota di “risveglio” per la democrazia parlamentare: “La storia politica di questi ultimi anni [libro del 1931] non è la storia dell’applicazione del Trattato di Versailles, né delle conseguenze economiche della guerra, né degli sforzi dei governi per assicurare la pace d’Europa, ma la storia fra i difensori della libertà e della democrazia, cioè dello Stato parlamentare, e i suoi avversari”, ivi, p. 35, corsivi miei. Cosa quest’ultima, la difesa dello stato parlamentare, forse comprensibile all’epoca, e, per far ciò, propugnava una democrazia forte che sapesse difendersi anche attaccando. Vi è qui, in nuce – ma, ovviamente, non n’è direttamente responsabile Malaparte, sia detto a chiare lettere – il germe di quella deriva della quale viviamo e in cui siamo, la deriva del paradigma di sorveglianza, se possibile totale, giustificata dalla democrazia, ormai svuotatasi di senso. Far capire agli “illustri strologatori” e cantori delle “magnifiche sorti e progressive” della democrazia questa sua deriva, e ch’essa in se stessa ne abbia i germi, e cioè che tale deriva sia “strutturale” al regime democratico stesso, è una fatica di Sisifo.
Che la loro amata democrazia potesse portare a questo globale disastro è troppo per costoro, e ciò è per loro totalmente inimmaginabile, persino impossibile: non stupisce che non è che ne neghino l’esistenza, ne neghino la semplice mera possibilità. Si vive nel mondo della negazione della realtà.
In ogni caso, ponendo a confronto l’insurrezione bolscevica del ’17 con quella fascista dell’inizio degli anni Venti, dovuta, secondo Malaparte, alla cultura marxista da cui proveniva Mussolini, e qui era la differenza con Hitler, di cultura conservatrice – che per questo avrebbe certamente (come fu) scelto la via d’impadronirsi del Parlamento –, diceva: “L’insurrezione bolscevica dell’ottobre 1917, a Pietrogrado, si era effettuata quasi senza perdite: non si ebbero morti che durante la controrivoluzione, alcuni giorni dopo la conquista dello Stato […]. ‘I conflitti sanguinosi di Bologna e di Cremona’ aggiunsi ‘provano che vi era qualche difetto nell’organizzazione rivoluzionaria fascista. Quando il funzionamento della macchina insurrezionale è perfetta, come qui in Toscana, gli accidenti sono molto rari’”, ivi, p. 207. Quanto ad oggi, non vi son più “gangli” da colpire, in quanto il “ganglio” è dappertutto, una sorta d’emulsione tecnologica che tutto ricopre. Oggi solo una crisi economica di un “certo” tipo (2.0), dopo quella appena passata, potrebbe costituire una pietra d’inciampo, insufficiente, e che verrebbe usata da “certe” forze: e però proprio questo sarebbe la cosa giusta, in quanto rivelerebbe la nullità di queste forze che prenderebbero definitivamente il potere, dopo aver tramato ed essersi mosse nell’ombra sin ora.
Secondo Malaparte, che Mussolini, e non Hitler, usasse un “colpo di mano”, derivava dalla cultura marxista che il giovane Mussolini aveva comunque avuto, invece assente in Hitler; giudizio in gran parte vero, che però andrebbe sfumato, perché anche Hitler ebbe contatti con la cultura marxista, solo che s’interessò di un altro suo aspetto: non dell’ “arte dell’insurrezione”, ma di quella della propaganda, dove, poi, surclassò, di molto, gli stessi partiti marxista, e tuttavia ammetteva di averne imparato i rudimenti dai suoi stessi nemici. Non vi è miglior maestro del tuo nemico, ed è così, sempre. Ma tutti i “protestatori” del “nostro” tempo, pieni di vanità e di chiacchiere com’è caratteristica di questo momento storico “finale”, mancano di apprendere questa semplice lezione della storia, che, si sa, magistra vitae non lo è mai. Tutto sommato, mutatis mutandis, la Rivoluzione iraniana del 1979 segue questo schema “alla russa” di due rivoluzioni, la seconda come presa del potere da parte dell’ala più radicale. Nella Rivoluzione francese pure si può riconoscere questa schema, ma molto meno chiaro e ben più sfumato. Le due rivoluzioni, russa e francese, sboccano in forme di cosiddetto “cesarismo”, molto diverse tra loro, ma questo l’esito; al contrario, quella iraniana qui è differente, la causa essendo il diverso contesto culturale islamico, essendo l’Islamismo, sostanzialmente, una sorta di nomocrazia, che si esercita “in nome di” un Dio “tiranno”, concetto non estraneo al Cristianesimo, per quanto in contesto cristiano ben meno forte (anche se il Protestantesimo vi si è avvicinato non poco), e neppur estraneo a Machiavelli stesso. Altra differenza è questa: la Rivoluzione bolscevica parte dall’internazionalismo però arriva, di fatto, al neonazionalismo. Attraverso mille passaggi e fasi, questo è il suo approdo. Il cammino dell’Islamismo radicale, al contrario, è stato diverso: esso parte dal nazionalismo religioso, per mezzo della seconda fase della Rivoluzione iraniana, quando Khomeyni, tornando dalla Francia grazie ai fondi dei grandi mercanti dei bazar iraniani, realizza – more bolscevico (seppur con altre modalità: nulla si ripete, vi son solo paralleli, mutatis mutandis) – una seconda rivoluzione, con la presa del potere per instaurarvi un governo radicale. Da lì, lo stimolo dell’Islamismo radicale si diffonde in ogni paese a suo modo, e cioè con modalità profondamente differenti. Potremmo dire che la Rivoluzione iraniana sia stata l’ultima con andamento politico “novecentesca”.
La cosa interessante da sottolineare, tuttavia, è che, sia nel caso della Rivoluzione iraniana che in quello, molto diverso, di Solidarność, è che non si è trattato – né ancora si tratta – di cosiddetto “ritorno al sacro”, che è molto lontano; e nemmeno si è trattato (e si tratta tuttora) di “desecolarizzazione” (P. Berger): si è trattato, e si tratta – ancor oggi –, di ritorno dell’aspetto sociologico delle religioni, che, a sua volta, non si capisce se non si pone mente al “sacro senza religioni” che fu sperimentato negli anni Sessanta e Settanta: in seguito al suo fallimento, la tendenza opposta, religione e politica, riemerse con forza, anche grazie alla Rivoluzione iraniana. Si deve, tuttavia, precisare che questa tendenza al ritorno ai “valori” (= religione e politica insieme) si ha già nel momento di maggior fulgore di “sacro senza religioni”, e possiamo farlo iniziare proprio nel 1968, che, secondo tanti, è l’inizio di chissà quale degenerescenza politica.
In una parola: quel che abbiamo visto è il ritorno della relazione fra politica e religione, a fronte della crisi, esiziale, della politica moderna come “salvifica”.
Ora però, a distanza di decenni, possiamo dire che il ritorno di questa relazione stretta fra politica e religione non ha risolto alcun problema. “LaMacchina non solo funziona da sola – e questo fu lo scopo negli anni Settanta d’individui come D. Rockefeller: “securizzare” il funzionamento autonomo (cibernetico) della “Macchina” stessa, qualunque cosa fosse potuta succedere: se c’è un “complotto” vero, questo lo è stato –, ma le cose son gravemente peggiorate, visto che il giorno in cui il System consuma tutte le risorse rinnovabili è passato dal 2 ottobre del 1997 al 2 agosto del 2017: in soli vent’anni ha fatto quanto ha compiuto in molti decenni precedenti. A fronte di dati del genere, le cosiddette proposte di “cura” fanno semplicemente ridere, pur essendo la cosa tragica. Da tal punto di vista, il ritorno al legame stretto fra la politica e la religione non ha prodotto alcun successo, proprio zero. E cioè il ritorno della relazione stretta fra religioni e politica, fino, al limite, a ritornare a visioni pre-secolari – ma moderne … – in cui la religione si fa politica, non ha intaccato in nulla la tendenza uniformante del System tecnico-economico. Qui è il suo profondo fallimento; anzi, tale tendenza si è acuita. In tal senso, la visione à la Pasolini non si è dimostrata per niente sbagliata, solo che si è realizzata, come sempre nella storia, con modalità paradossali. Un conto è giocare ad un gioco, ben altro dettarne le regole. Chi detta le regole del gioco è più forte, per principio, di tutti i giocatori.
Il “ritorno alla religione politica” – pur se non nelle forme “classiche” della “teologia politica” che l’Occidente ha conosciuto e delle quali il nostro mentore Federico II di Svevia è stato sommo rappresentante, nella sua versione medioevale –, il “ritorno alla religione politica” è avvenuto seguendo le regole del gioco imposte al mondo intero dal System. Il fallimento della Rivoluzione bolscevica, non dal punto di vista storico, ma ideologico, è infatti dovuto alla non comprensione di questo preciso punto. Anzi, l’essere marxisti si definisce come il non poter comprendere, per principio, questo specifico punto. La Rivoluzione iraniana e tutte le forme d’integralismo d’ogni forma, fatta o misura, falliscono perché giocano secondo le regole: loro scopo è “prendere il potere”, però allora sei dentro il System, che piaccia o non. E così per tutte le forme ben più blande dell’integralismo, sia detto a chiare lettere, di ne nazionalismo, “sovranismo”, populismo e qualsiasi cosa del genere. Questi sono i fatti, oggi. Alle classiche rimostranze di non lasciare speranze, o alle classiche accuse di “apocalitticismo”, seppur di carattere molto blando, si risponde così: se il problema fosse stato facile a risolversi, non lo sarebbe già stato? Non sarà che, forse, il fatto che siamo giunti a questa situazione così sbarrata non derivi dall’aver sempre sottovalutato la sfida radicale che la sola esistenza del System ed il suo funzionamento cibernetico –  autoregolantesi – necessariamente pone?
[3] Ivi, p. 35, corsivi in originale. Mostrando come si possa conquistare uno “stato moderno” – periodo dello “stato moderno” nel quale non viviamo più -, Malaparte in realtà voleva sollecitare a capire come si difende questo stesso stato, nel frattempo, nei giorni nostri, svuotatosi da dentro. Allora diciamo: come si difendeva lo stato moderno. Non vi è, però, illusione più perniciosa di quella di pretendersi libero, e questa suggestione collettiva è la base di tutta l’impalcatura dell’inamovibilità della situazione presente. Il comprendere di non esser liberi è, infatti, sempre e dovunque, il primo passo per intraprendere un cammino che forse, in futuro, potrebbe portare alla vera ed effettiva libertà. Tu puoi scegliere di voltare, in teoria sei “libero” nella tua scelta, ma se si condiziona, in mille modi, questa tua scelta, dove sta la libertà?? La democrazia postula una tabula rasa che sta solo nelle menti di chi la concepì per scardinare l’ ancien régime. La “libera scelta” postula una conoscenza che non potrà mai essere di massa, un’educazione, soprattutto una consapevolezza così diffuse da esser totalmente una chimera, nelle condizioni date, oggettive, concrete del “nostro” mondo.
Contro ciò non si combatte con misere tattiche elettoralistiche, ma tenendo ben in mente certi consigli strategici: “Una strategia senza tattiche è il cammino più lento verso la vittoria. Le tattiche senza una strategia sono il clamore prima della sconfitta”, Gary Kasparov in Sun Tzu, L’arte della guerra, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2011, p. 14. Tra l’altro, anche Napoleone, come Mao Zedong, conosceva quest’antico, sempre utile testo: “si hanno notizie di una versione francese del gesuita Amiot, redatta nel 1772, di cui egli [Napoleone] avrebbe avuto conoscenza. E anche Mao Tse-tung mostrò d’interessarsi ai princìpi di Sun Tzu, applicandoli durante la Lunga Marcia che lo avrebbe portato al potere”, ivi, p. 11. Ci si potrebbe chiedere perché non vi possano essere rivoluzioni oggi, e rivoluzioni che, preciso bene, come tutte le precedenti di cui s’è detto in breve, possono sì aver qualche successo, ma non cambiare la direzione del mondo; nondimeno non ci sono proprio: perché dunque. Eccone la ragione, spiegata da Lin Piao: “Solo la campagna è il mondo senza fine in cui i rivoluzionari possono agire in libertà”, in J. Guillermaz, Storia del Partito comunista cinese 1921/1949, Feltrinelli Editore, Milano 1973, p. 167, corsivi miei. In città questo non è possibile. Oggi però, il mondo intero è una gigantesca città, la campagna, seppur laddove non è divenuta “imprenditoria agricola”, è marginale o viene marginalizzata, come si è visto da Thuiller, più volte citato in qualche post precedente. Dunque così si spiega “l’arcano” che, quindi, arcano non è affatto. 
Napoleone era uno strano misto di cose contraddittorie, come ci si può convincere leggendo le sue affermazioni. Un esempio: “L’immaginazione governa il mondo”, Napoleone, L’arte di comandare, Newton Compton editori, Roma 2014 (1995), p. 102; oppure: “Il genio delle grandi imprese e i grandi risultati consistono nell’arte d’indovinare”, ivi, p. 119. Diceva però anche: “Come può il principio monarchico imporsi sulla logica degli avvenimenti in corso? Solo impedendo il ripetersi dell’esempio da me dato nei confronti di ciò che i sovrani chiamano legittimità. Ma il mio esempio non si ripeterà per secoli”, ivi, p. 101, corsivi miei.
E così è stato. Per quanto volesse imitare Napoleone, Hitler era ben diverso da lui, come osservò giustamente Aurobindo. Ebbene, nel discorso che si è fatto qui nemmeno cambiamenti all’ interno di un quadro istituzionale son possibili oggi.
[4] Storia della filosofia politica, a cura di L. Strauss e J. Cropsey, il melangolo, Genova 1995, p. 35, corsivi in originale, quelli miei segnalati fra parentesi quadre. Tra l’altro, nel proporre (a Lorenzo de’ Medici) la “liberazione dell’Italia”, Machiavelli usa dei paragoni che, in effetti, son citazioni dalla Bibbia, relative agli eventi straordinari compiuti da Mosè, e questo punto è interessante: “Machiavelli sembra suggerire che l’Italia è per Lorenzo [il Magnifico] la terra promessa. Ma c’è una difficoltà: Mosè, che condusse Israele fuori dalla ‘casa di schiavitù’ verso la terra promessa, non raggiunse mai questa terra; morì ai suoi confini. In tal modo, Machiavelli profetizza oscuramente che Lorenzo non libererà l’Italia, dal momento che egli è privo della straordinaria virtù necessaria a portare a compimento questa grande impresa. Ma c’è qualcosa in più degli straordinari eventi […]. Tutti questi eventi straordinari sono accaduti prima della rivelazione sul Sinai. Ciò che Machiavelli profetizza è, allora, che […] la rivelazione di un nuovo Decalogo, è imminente. Il portatore di questa rivelazione non è naturalmente il mediocre Lorenzo, ma un nuovo Mosè. Questo nuovo Mosè è Machiavelli stesso, e il nuovo decalogo è la sua dottrina […] sull’assolutamente nuovo principe […]. E’ vero che Mosè è stato un profeta armato e che Machiavelli appartiene a quella schiera di profeti disarmati che necessariamente pervengono alla rovina”, ivi, p. 19, corsivo in originale.
Sul Dio “tiranno”, che non è caratteristica dell’Islamismo, ma in quest’ultima religione si è magnificato per mezzo della “nomocrazia” ricordata più sopra, va ricordato che Machiavelli ne accenna a partire dall’ unica citazione dal Nuovo testamento esplicitamente riportata da lui stesso, ed è dal Magnificat, ma, nel contesto dei Discorsi della Prima Deca di Tito Livio, “ciò significa che Dio è un tiranno, e che il re David, che ha reso ricco il povero e viceversa, è stato un re divino, un re che ha camminato sulle vie del Signore perché ha proceduto sulla via della tirannide”, ivi, p. 31, corsivi miei. Non a caso, ne Il Libro del Signore di Shang vien detto, esplicitamente, che render ricco il povero e viceversa è un preciso segno del governo giusto, cioè assolutistico, se non vogliamo usare il termine di “tirannico”, un po’ fuorviante. “Tirannico” sottintende, infatti, che sia “illegale” la presa del potere, ma ciò non è un fatto necessario al governo assolutistico, che può perfettamente costruirsi dentro un sistema di leggi, ma spietate, come suggeriva l’antico testo cinese testé citato, e fermo restando che la “legittimità” del potere regale vi era garantita dalla successione dinastica. Chiaro che, mancando quest’ultima, si può scivolare dall’autoritarismo alla tirannide, quest’ultima, però, portata sempre avanti da homines novi, con l’aiuto del consenso popolare.
Interessante notare che, per Guénon, la lotta fra Mosè e “i maghi del Faraone” sia un’immagine della lotta fra quel che chiamava l’ “iniziazione” e la “contro iniziazione”, quest’ultima essendo rappresentata spesso, ma non solo, dall’Ermetismo “deviato” nel magismo puro e semplice.
Sul “re David”, un passaggio “assai scioccante”: “Potentissimo Sovrano, Gran Comandante e Gran Maestro dell’industria e della finanza, e dunque degli scambi di beni materiali sul continente europeo e le sue dipendenze [evidentemente scritto prima della “decolonizzazione”, nota mia], e a causa di ciò stesso Servus servorum Sabbathai; onnipotente e misterioso personaggio situato al centro di gravità stesso di tutte le forze economiche e finanziarie, e di conseguenza dispensatore lontano di tutti i beni materiali della Terra, e in seguito, dei mezzi d’informazione e d’espressione che ne dipendono; erede sconosciuto e così preziosamente nascosto del Trono del santo e criminale Re David, ognuno, nell’ora stessa del suo trionfo, avrà preparato le condizioni immediate della sua propria distruzione, e così, dopo la vittoria provvisoria dell’Anticristo e l’ora della Grande Tenebra, il ritorno all’ordine legittimo che corrisponde alla fine del ciclo”, frase di corrispondenza privata in A. de Danann, Mémoire du sang, contre-initiation, culte des ancêtres, sang, os, cendres, palingénésie, Archè, Milano 1990, pp. 35-36, nota a pie’ pagina n°15, corsivi in originale. Questo passo viene riportato in nota non casualmente in relazione ad una frase in cui si sostiene che “certe stirpi moderne d’industriali e di finanzieri sembrano servire da ‘veicolo’ ad ‘influenze’d’un altro ordine”, ivi, p. 35.
[5] A. Conan Doyle, Tutto Sherlock Holmes, Grandi Tascabili Economici Newton Compton, Roma maggio 2001, p. 1069 – insomma, come occhi di volador … Conan Doyle qui si riferisce all’agosto del 1914, e, di nuovo, si stabilisce un parallelo, pur nella differenza, fra quell’epoca e la “nostra” … E così continua il passo di qui sopra: “Tornando verso la macchina, Holmes indicò il mare illuminato dalla luna e scosse il capo, pensieroso. ‘Si sta avvicinando il vento da est, Watson’. ‘Non credo, Holmes. Fa molto caldo’. ‘Certo vecchio Watson! Unico punto fisso in un’epoca in mutamento. Si sta avvicinando il vento dell’est, un vento non mai soffiato sull’Inghilterra [mai l’Inghilterra è stata invasa da est, infatti, dopo l’invasione anglosassone guidata dai due gemelli Hengest e Horsa, due nomi puramente di radice germanica, e ricordati da Beda Il Venerabile nella sua Historia ecclesastica gentis Anglorum; nota mia]. Sarà un vento freddo e pungente, Watson, e molti di noi rabbrividiranno alle sue raffiche. Ma è sempre un vento mandato da Dio e, passata la bufera, una terra migliore, più pulita e più forte si riscalderà ai raggi del sole. Metta in moto, Watson, è tempo di andare. Ho un assegno per cinquecento sterline che dev’essere incassato prima possibile; il traente sarebbe capacissimo di bloccarlo, se potesse’”, ivi, p. 1080. Che differenza fra quest’Inghilterra dell’epoca dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, così ricordata da Conan Doyle, e quella di oggi! Anche l’Inghilterra, ricordata da Tolkien nella sua “Contea”, che fu ispirata a qualche villaggio tradizionale inglese, rispetto a quella odierna, fa l’effetto di un gigante: l’Inghilterra ha quindi anch’essa definitivamente abdicato al suo ruolo di “bilanciamento” rispetto alla Germania ed al Centro Europa, come ha fatto, già da molto tempo, la Francia.
[6] Cf.
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2017/07/la-spola-la-fine-della-democrazia-1994.html
“‘Le democrazie si svuoteranno miseramente, come tante bolle di sapone. E quando l’Anticristo sarà sulla strada do Roma consegneranno il potere a uomini capaci’. Ma non saranno più dei ‘filosofi, ma dei matematici poiché il domani non starà nelle passioni ideologiche, ma nella razionalità matematica [noi diremmo oggi: nella tecnica; nota mia]’. Così troviamo scritto in un messaggio profetico francese, scritto presumibilmente alla fine del 1700. Lo stesso messaggio precisa ancora che: ‘… i tempi saranno maturi per accogliere l’Anticristo quando il padrone ridurrà il pane in briciole’. E qui per ‘pane’ vanno intese quelle democrazie sconfinati nelle demagogie che, per meglio ‘ingabbiare’ il popolo, frantumano il potere in pezzi sempre più piccoli, sino a vanificarlo. Le conseguenze sono note soprattutto in Italia, dove sono state create strutture capillari inutili, per coinvolgere legioni d’incapaci e di lestofanti, che finiranno per provocare veri e propri disastri [avvenuti!!]. Queste ‘tele di ragno truffaldine’ assorbiranno buona parte del reddito nazionale [avvenuto]. Ecco quindi la cornice del tempo dell’Anticristo: malumore e sfiducia diffusi, povertà di servizi sociali, che costeranno somme esorbitanti [incredibile = oggi, si veda però la data di pubblicazione di questo libro …; nota mia]. Al cittadino si toglierà la pelle con marchingegni fiscali sempre più  sofisticati e in cambio si darà solamente l’illusione di servizi pubblici [oggi!!]. Sullo sfondo avremo poi le brume di un potere sempre più sbriciolato, che seguirà le lune di una marea di nuovi balivi [idem]. Su questa strada si arriverà all’ingovernabilità. […] Anche nelle lettere profetiche della monaca di Dresda si prevedere il crollo delle democrazie. E questo periodo viene fatto combaciare con l’evento dell’Anticristo. Ma non sarà un ‘crollo indolore’, in modo particolare per la l’Italia, la Francia e la Grecia. […] Il crollo delle democrazie non lascerà margine al trionfo della sinistra o della destra perché questo crollo travolgerà tutti ‘in quanto tutti sono profondamente marci, anche se dalle loro putride bocche escono parole di giustizia e di fede’”, R. Baschera, L’Anticristo e le profezie sugli anni 90, Armenia Editore, Milano 1985, pp. 85-86, corsivi miei. Segue un capitolo che parla della crisi delle materia prime, realizzatasi parzialmente, e della produzione del petrolio, quest’ultima essendo stata superata – ma non risolta – dalla tecnica del fracking, che però presenta elevati costi ecologici. Quel che conta sottolineare, si è che la “soluzione” la si cerchi sempre nell’ambito della logica dominante, cioè in ciò che ha portato al male: diventa, così, una dissoluzione …
Il “pivotale” 1994 è anche l’ultimo anno, finale, con il quale finisce l’ultimo libro mai pienamente completato di Canetti, dove, tra l’altro, Canetti cita Dante, cf. E. Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi Edizioni, Milano 2017, p. 330. A parte certi giudizi, come quello su Eliot, troppo tranchant, faceva comunque delle osservazioni, come gli era solito, piuttosto interessanti, pur nella sua relazione conflittuale, ma di grande interesse, verso le religioni, e sempre con un occhio attento alla morte come uccidere, alle relazioni fra massa e potere. Per esempio, vide per tempo che l’Islamismo sarebbe stato il grande coagulato della potenza della “massa”, ma Canetti, per sua stessa ammissione, odia, per esempio: “Roma, città che in me ha sempre suscitato un odio profondo”, ivi, p. 327, quella Roma che ha distrutto il Secondo Tempio, nemica dei Giudei, Roma, però, nei Maccabei considerata “buona”, per dire della natura polimorfa e conflittuale del mondo giudaico. Infatti, per dire, altrove scrive: “Sotto il dominio dei Romani non sarei diventato cristiano, ma avrei adorato Iside. Non la Iside che porta in grembo un figlio, bensì la Iside che cerca e ritrova le membra sparse di Osiride”, ivi, p. 289, corsivi miei: qui vi è sì riprovazione per il Cristianesimo, in quanto legato indissolubilmente a Roma, e però anche l’ ammissione di poter adorare “altro” rispetto al Dio d’ Israel, col quale la sua relazione è molto conflittuale. Ora, venendo alle considerazioni che in questo momento, in questo blog,  preoccupano, a proposito della Prima guerra del Golfo, scriveva: “Non è trascorsa neanche un’intera settimana da quando tutto ha avuto inizio. Non riesco a pensare ad altro. Forse è stato l’ultimissimo istante in cui la Terra l’ha scampata. Ma l’ha scampata davvero?”, ivi, p. 299, corsivo in originale, l’anno di riferimento è il 1991. In relazione al fatto – Saddam Hussein -, la scampò, ma era solo l’inizio di altro, non era Saddam che un epifenomeno: la minaccia cambiava forma.
Lo stesso Canetti, scomparso nel pivotale 1994, per esempio citava Enoch Powell che preconizzava “fiumi di sangue” in relazione al pericolo dell’immigrazione “massiccia” (a sua volta, Powell sarebbe scomparso nel 1998, cf. ivi, pp. 328-329, considerazioni dell’anno 1993, ben prima che le cose precipitassero). Nelle Note finali aggiunte dai curatori, si legge: “Powell mise in guardia i suoi connazionali dalle conseguenze di un’immigrazione di massa in Gran Bretagna e, facendo uso dell’espressione di Virgilio (Eneide, VI, 86), preconizzò i ‘fiumi di sangue’ che ne sarebbero stati la conseguenza”, ivi, p. 355, corsivo in originale. Ma non è l’ “immigrazione” in sé il problema – ché non sono nemmeno tantissimi come numero “assoluto” –, il problema è la debolezza strutturale delle democrazie e degli stati europei, in dissolvimento. I castelli di carte si possono abbattere con una pressione non troppo forte. Non era Saddam il problema quanto l’epifenomeno, come non lo è chi si rifaccia esplicitamene a Hitler, che fu solo una manifestazione di “qualcos’altro”, si tratta di manifestazioni di questo proteiforme “qualcosa”, della quale, mi pare, “Incànus” abbia dato qualche indicazione … Quindi, la Terra non l’ha scampata davvero … La potenza delle “torri”, comunque, oggi sembra in piena espressione  
[8] “Il nostro destino è guidato da due mummie: quella di Lenin nel suo mausoleo e quella di Betham a Londra, University College”, R. Calasso, La Rovina di Kasch, Adelphi Editori, Milano 1983, p. 284, corsivi miei. Sebbene Calasso, all’epoca, si riferisse alle “relazioni fra Urss e Usa”, tuttavia, paradossalmente, pur essendo sparita l’Urss, né la mummia di Lenin, per le ragioni ne nazionalistiche dette altrove, né la mummia di Bentham, teorico del capitalismo “morale”, sono sparite. Dunque, in maniere che lo stesso Calasso non avrebbe probabilmente potuto prevedere all’epoca, il nostro destino continua ad esser dettato da due mummie: il che la dice lunga sulla “vitalità” della “nostra” epoca, guidati da mummie … Interessante notare che Lenin era per un quarto calmucco, popolo mongolo di religione lamaista, che sta nelle steppe della Russia europea meridionale, però: il punto più a ovest per un popolo mongolico professante il Buddhismo tibetano, seppur con delle modalità spurie, mescolato con elementi dello Sciamanesimo residuale caratteristico dei Mongoli e dell’Asia Centrale.
Interessante quest’edizione della leggenda di Gessar Khan, eroe dei tibetani e dei mongoli, e non si sa bene se l’origine della leggenda sia tibetana o mongola, cf. Gessar Khan, a cura di I. Zeitlin, Plgrim Books, Delhi 1997, pubblicato dunque vent’anni fa, ma l’edizione originale è del 1927, dieci anni dopo la Rivoluzione d’ottobre. Ora però, nella Prefazione, si dice che tale versione si basa sia sull’edizione tedesca pubblicata a San Pietroburgo nel 1839, sia dalla versione calmucca della leggenda, il cosiddetto Piccolo Gesar, pubblicata a Riga (capitale attuale della Lettonia, ma in realtà città della Lega Anseatica, fondata il 18 agosto del 1201 dal vescovo tedesco Alberto di Riga, uno dei tedeschi del Baltico che avranno un ruolo molto importante nella storia), nel 1809. Sia detto en passant.    
Tra l’altro, il lato “occulto” – che non significa “satanista” nel senso comune del termine – di Hitler è certo (fra gli altri, cf. G. Galli, Hitler e il nazismo magico, RCS Libri & Grandi Opere, Milano 1994); ma pure Lenin l’ha avuto, sebbene in forme e con delle modalità certamente diverse, a tal proposito, cf. G. Vatinno, “Il comunismo ‘magico’ e i ‘cosmisti’ russi”, Il Giornale dei misteri, n. 392 giugno 2004, pp. 40-42. Su Galli, cf.
[9] Introduzione di P. Broccoli in T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del maiale e il teatro contadino, Edizioni Melagrana, San Felice a Cancello (Ce) 2017, p. 11, corsivi in originale.
[10] Negli ultimi dì d’asfissiante caldo sahariano, sono stato nel centro commerciale “integrato”, che conta circa venti milioni di consumatori e visitatori l’anno: che da un lato si abbia una tale mostruosità e dell’altro la “terra dei fuchi” non è casuale, ma sono due facce della stessa medaglia. Ecco visitato un non luogo, all’interno di un non luogo. La febbre dello shopping prende i consumatori nei giorni dei “Saldi”, assaltati. Il frastuono nelle orecchie ha quasi un effetto ipnotico: spegne gli ultimi sprazzi di lucidità. Sono l’unico, fra migliaia e migliaia di gente che si agita, seduto su di una panchina, che dentro sta prendendo appunti: mi ricorda L’uomo della folla, un vecchio racconto di E. A. Poe. “‘Questo vecchio’ dissi dopo una lunga riflessione, ‘è il tipo e il genio del delitto profondo. Egli non vuole essere solo. E’ l’uomo della folla. Seguirlo è inutile, perché no saprò mai niente di lui e della sue azioni. Il peggior cuore del mondo è un libro ancor più ermetico dell’ Hortulus animae e forse è una grande misericordia di Dio che es lässt sich nicht lesen”, E. A. Poe, “L’uomo della folla” in Le belle bandiere, maggio 1981, p. 6, corsivi in originale.
L’unico che riflette fra milioni che son guidati da comandi e suggestioni esterni: questa è la dimostrazione pratica della totale sconfitta, della vera e propria totale débacle (che parolona) della modernità. Che significa oggi votare in un tale mondo? Che significato ha, ma davvero e concretamente, la “libertà” di voto in una tale atmosfera? Lascio il sabba dello shopping. Fuori, alla luce del crepuscolo “frattura fra i mondi”, nell’aria dal colore rosso violaceo, livida e tumefatta senza un alito di vento, il Lupo dei Nodi addenta il suo spicchio di luna.    
[11] Apollo è ricordato come colui che “dà la morte a distanza” da G. Colli. Ed ecco quel che Colli scriveva, sempre al riguardo del “sorriso”: “Questi e altri discorsi sono pure suggestioni prive di vigore originario, si avvalgono di rappresentazioni fittizie, interpolate, ricostruite; quando si scoprano […] espressioni preservate senza mediazioni astratte – come avviene per alcune figure e testimonianze sorte in quel tempo ma resistenti al tempo nella loro natura espressiva – la possibilità di recuperare quella vita si approfondisce in modo subitaneo. In questi testimoni si focalizzano e si rappresentano tutti i faticosi sussidi indiretti; essi sono uno scorcio illuminante, una gravida abbreviazione di quanto il discorso storico va intessendo fiaccamente, poiché forniscono ‘la piccola indicazione’, direbbe Platone, l’aiuto a chi possiede l’attitudine per compiere il gran salto all’indietro. Tal è il caso per le figure della scultura in un breve periodo, pochi decenni tra il sesto e il quinto secolo:non ci si muove qui tuttavia su un terreno dimostrativo, piuttosto su un piano evocativo. Questi kùroi sono raffigurazioni di coloro cui si rivolgevano le parole dei sapienti. Qui soltanto è in nostro possesso una vibrazione primitiva. Il senso di quelle parole doveva esser tale da risultare comprensibile agli uomini così raffigurati […]. Certo, non era destinato a noi! E se commentare queste figure significa stemperarle, sarà lecito tuttavia accennare alla risonanza fisiologia che la loro vista opera su di noi anzitutto un brivido di meraviglia […]. I grandi occhi dorici aperti – vuoti per noi, quasi una Medusa che impietrisca – son aspri ance nei volti delle kòrai; i disegno delle orbite è elaborato e scarno a un tempo […]. Qualcosa ci manca negli occhi, ma la bocca è preservata, e dallo sguardo che atterrisca salva il sorriso,dove si manifesta una philanthropia ingannevole, poiché il sorriso è il promo segno fisico della ragione simulatrice, della sua malizia e ironia. Appena percettibile è la contrazione della bocca, piegata in alto agli angoli, così che le labbra lievemente si schiudono. E’ questo l’elemento dolce della simmetria, ma ambiguo ancora nella serenità, nel dominio giocondo sull’apparenza, nel fiore della bellezza, che dissimula una minaccia”, G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi Editore, Milano 1968, ivi, pp. 175-176, corsivi in originale. Ecco, quello dell’Apollo di Veio è questo sorriso ricordato da Colli, sorriso che “dissimula una minaccia”, in quanto è il segno espressivo esteriore della “ragione simulatrice”. Quanto ad Apollo (e Dioniso): “Oggi è possibile ascoltare le parole di Nietzsche sui Greci con un sentimento analogo – sia pure più tenue e sfumato – a quello con cui egli ascoltava sullo stesso tema Winckelmann e Goethe, ossia con un assenso ce approfondito conduce a un dissenso. Dalla ‘serenità greca’ Nietzsche risalì indietro a Dioniso e alla tragedia, dove ritrovò la sua costellazione culminante [quel che dicesi Medium Coeli]: ora ci si può avventurare più indietro ancora – e le scoperte archeologiche hanno arricchito lo sguardo – alla ricerca di un’altra ‘serenità greca’. L’abisso dionisiaco, quel sommovimento e turbamento supremo, fu padroneggiato da Apollo prima e meglio che nella tragedia. Senza contare che talora Dioniso indica il pullulare interiore e l’effusione democratica sorti dalla rottura di un precedente equilibrio apollineo. Nietzsche è penetrato nelle anime di quegli uomini, ma non ne ha visto i corpi […]. Che il sorriso degli Egineti si stato da lui interpretato come un artificio di scultori primitivi dimostra che gli mancarono gli occhi per la natura saettatrice di Apollo – per il logos [corsivo in originale]”, ivi, pp. 189-190, corsivi miei. Ma quando Apollo sia divenuto solo quel “dio del sogno” e della “rappresentazione” che è, secondo il Nietzsche de La nascita della tragedia, e tuttavia mantiene – e diffonde – il suo strumento di distruzione indiretta –  la sua “ragione simulatrice”? Che cosa succede, allora? Più o meno il mondo che abbiamo sotto gli occhi
La “Grande Menzogna”, per Colli, è la scrittura, che occulta il lato “vivente” dell’espressione del logos, ma non è così, qui si è sbagliato, ha preso un mero effetto per la causa; invece, che la “Grande Menzogna” sia il sostenere che il logos è costruttivo, quando invece, come l’arco d’Apollo, è distruttivo, però a distanza, questo è verissimo, su questo ha senz’altro avuto ragione. E, dopo questa prima, grande menzogna, eccone sorgere un’altra, la “Seconda Menzogna”, ovvero la scienza, che piega il logos all’ “utile”, “Contemporaneo a Descartes è il deciso sopravvento della scienza sulla filosofia, nel senso che la prima non è più covata e allevata dalla seconda come una creatura prediletta, […] e bruscamente, con maniere volgari, congeda la nutrice. A quest’emancipazione si accompagna la seconda menzogna, dopo quella platonica: la ragione non si accontenta di essere ‘costruttiva’, ma vuol diventare anche ‘utile’. Ma utile è ciò che favorisce il principium individuationis e i suoi fini […]. Nella struttura dell’apparenza […] i fini degli individui sono i risultati più illusori, più aberranti dell’immediatezza; soccorre qui l’oracolo eracliteo: ‘sebbene il logos sia comune e concatenato, i più vivono come se ciascuno avesse un proprio mondo di pensiero’. Subordinata al punto di vista dell’individuo, la conoscenza diventa così uno strumento dell’azione [momento e cambiamento decisivi, nota mia; corsivi miei]: in questa crisi, tragica e decisiva, per i secoli seguenti, il filosofo Descartes impallidisce, trascolora sino ad annullarsi nello scienziato, e in generale la filosofia si ritira ufficialmente dal giuoco, cedendo il banco [corsivi miei]. Il vincitore è privo di venerazione [come tutti i parvenu sempre sono; nota mia], e da allora il titolo di filosofo designa qualcuno che sta tra l’acchiappanuvole e il giullare”, ivi, pp. 222-223, corsivi in originale, salvo diversamente indicato fra parentesi quadre. E, d’altro canto, non fece Nietzsche di Apollo il dio del principium individuationis? E cos’accade quando lo strumento di distruzione indiretta di Apollo, l’arco, divenuto – non a caso – cosiddetta “arma da ‘fuoco’” (ovvero che spara a distanza) venga sottoposta all’ “utile” e si sparga per tutto il globo, partendo senz’altro dall’Occidente, ma toccando pure l’Oriente (“Per secoli questa [la ragione] rimase sul trono, poi passò lo scettro alla scienza, che rivelò i poteri della ragione nella sfera dell’utile, dove il logos diventa spurio, e sotto questo segno riuscirono le più difficili conquiste, caddero persino, in direzione del sole nascente, le roccaforti di ciò che è interiore”, ivi, p. 173, corsivo in originale)? Accade quel che abbiamo sotto gli occhi! L’uomo – gli uomini, la civiltà umana – non signoreggiano più lo scatenamento della potenza dell’ “utile” divenuta sistema tecnico-economico, e auto-sostenente, di fatto, incontrollabile, ma per mezzo del consensus: per quest’ultimo ecco il ruolo – del tutto residuale – della “politica moderna”. Ora, chiedere a quest’ultima un progetto, è futile, soprattutto molto ingenuo: dovrebbe porre in questione il suo ruolo di “agente consensuale”, ma, se lo facesse, non avrebbe più nulla in mano, infatti solo questo ruolo le è rimasto. In ogni caso, però non lamentiamoci, serve a poco; l’insistente lamentio dà l’impressione dell’impotenza, e, comunque, ricorda quel che disse la volpe alla gallina: “‘Oh come odio dover fare un uovo tutte le mattine’, si lamentò la gallina. ‘Adesso non ne hai più bisogno’, disse la volpe. Hawky, Fiaba a colazione” in N. Classen, Carlos Castaneda e i guerrieri di Don Juan, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 1998, p. 127, corsivi in originale.
Tra l’altro, ricordiamoci i due volti di Apollo: l’Apollo “Licio” (del “lupo”, lykos, e “luce”, lyké) e, tuttavia, per l’ ambivalenza dei simboli sottolineate da Guénon più volte, è anche l’ Apollyon, Apocalisse di Giovanni (9, 11), tra l’altro, Apollyon, che significativamente significa, in greco, “Distruttore” (= Apollo …), a sua volta, è la forma greca dell’ebraico Abaddon; a tal proposito, della relazione fra lupo e Apollo – e Seth –, cf. J. Robin, René Guénon. Testimone della Tradizione, Edizioni “Il Cinabro”, Catania 1993, pp. 42-43. A sua volta, guarda caso, Abaddon significa, in ebraico, esattamente “Distruttore” (= Apollo, di nuovo) … “Non ci sarebbe dunque nulla d’inverosimile nel fatto che, in terra celtica, il dio dalla testa di lupo [Beleiz = Apollo “Lycio”], dopo l’ occultamento del suo aspetto solare e propriamente apollineo, abbia ceduto il posto a questo dio dalla testa d’asino, di origine egiziana, ma destinato ad un ‘imperouniversale, e ‘che altri non è se non Set o Tifone [il suo nome greco]’, il cui culto, secondo Guénon, ‘permane ancora ai nostri giorni, e alcuni affermano pure che esso dovrà continuare sino alla fine del ciclo attuale’”, ivi, p. 43, corsivi miei. Set è il “patrono” della terra rossa, del deserto del Sahara insomma.
Sia detto solo en passant, ma la “reincarnazione” cosiddetta “non superò mai, in Oriente, lo stadio della superstizione popolare – come, del resto, in Occidente molti fedeli non vanno al di là dello stretto significato letterale e adorano immagini dipinte o rappresentazioni mentali – conviene riconoscere che certe formulazioni, da parte di Orientali qualificati, potrebbero suggerire che essi adottino questa ipotesi [cf. Le Vite passate del Buddha (Jâtaka), UTET, Torino 1992]. Si tratta, in effetti, o di espressioni puramente simboliche evocanti la trasmigrazione dell’essere attraverso stadi di esistenza sovrumana, o piuttosto di allusioni a ciò che i Pitagorici designavano col nome di metempsicosi, e che non ha nulla in comune con la reincarnazione. In verità, quest’ultima è propria dell’Occidente moderno, tanto che lo spiritismo, a cui comunemente la si associa, agli inizi non l’aveva ancora adottata […]. Si può, tuttavia, datare la prima manifestazione della teoria reincarnazionista alla fine del XVIII secolo, col principe Carlo di Hesse”, ivi, p. 50. Questo libro di Robin, in particolare il cap. 11 (ivi, pp. 319-355), lo consiglierei a chi ama tanto di parlare di “metafisica” e sottovaluta quanto Guénon sapesse, e capisse, di cose “psichiche”.
La metafisica, insegnava Sri Ramana Maharishi, è la comprensione delle essenze: questa non è una cosa mentale né quindi è una cosa di parole. Vero che ci sono le dottrine metafisiche, ma queste sono delle espressioni di qualcosa che va oltre il mentale. Troppe volte rimangono legati all’espressione, senza ricordarsi che, appunta, trattasi d’espressione, che, per definizione, non è la cosa cui essa (espressione) si riferisce. Spesso, poi, chi s’interessa di tali temi sottovaluta non poco la parte del mondo “sottile” riveste, mondo “sottile” che Guénon ben conosceva, più di quanto molti pretesi o reali seguaci crederebbero. Pertanto, la presenza “sottile” di una personalità può perdurare ben oltre la fine del suo corpo.
A seconda che tale presenza “sottile sia, a sua volta, “abitata” da un’ “influenza spirituale”, si ha un perdurare positivo; negativo in caso contrario.
Tal caso (il perdurare di una “presenza” legata ad un luogo, oppure ad un oggetto … “l’Anello”, per fare un esempio famoso …) è simile – ma non identico – alla metempsicosi, perché, in tal caso, questa “presenza” può “trasferirsi” in un’altra “individualità”; va precisato che non si tratta dell’ “essere tutto intero” (di cui parlava Guénon, o “essere intero”, tutte frasi “a chiave”).
Tra l’altro, “la metempsicosi, [si ha] dove elementi psichici in teoria perituri di un morto s’inseriscono nell’ anima di un vivo, cosa che dà l’illusione di una ‘rincarnazione’. Il fenomeno è benefico o malefico a seconda che si tratti di uno psichismo buono o cattivo; d’un santo o d’un peccatore”, F. Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Mediterranee, Roma 1988, p. 96, corsivi miei.
[12] Introduzione di P. Broccoli in T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del maiale e il teatro contadino, cit., p. 9, corsivi miei. 
[13] Ibid., corsivi miei. Anzi, come ho detto altrove (nel post precedente), solo proiettandoti nel passato tu puoi capire il futuro: infatti solo se conosci realmente una possibilità diversa da quella che ti ha portato là dove stai puoi almeno concepire che ci sia un futuro differente dal tuo presente.
Il resto sono mere chiacchiere. Si parla, per esempio, del giorno in cui sono state consumate tutte le risorse “rinnovabili” della Terra e, da quel giorno in poi, si va “in debito”, vale a dire che si consumano risorse che non possono esser più rinnovate, si agisce, cioè, in mero debito. Si è convenuto chiamare tal giorno “Earth Overshoot Day”, cf.
http://www.lettera43.it/it/articoli/scienza-e-tech/2017/07/31/earth-overshoot-day-risorse-naturali-esaurite-il-2-agosto/212650/.
Basti pensare, per rendersi conto di cosa sia realmente successo in questi osceni due decenni storici, che nel 1997, solo vent’anni fa eh, l’ “Earth Overshoot Day” si trovata all’inizio di ottobre. In solo vent’anni indietro di ben due mesi!!
Ma lor signori si rendono – e per davvero – di cosa sta succedendo? Anzi: è già successo. Ed hanno un minimo di consapevolezza del ridicolo di cui si coprono quando sostengono che “siamo ancora in tempo”?, per cosa, si vorrebbe sapere? Per tante chiacchiere? La totale sproporzione fra la diagnosi e la cura proposta fa ridere, o piangere. E ci spiega perfettamente perché, in questi lunghi vent’anni di follia collettiva, nulla sia stato fatto: perché un qualcosa la cui diagnosi sia così grave non può essere curata da simili sciocchezze. Vi è una frattura interna che si chiama “schizofrenia” collettiva, e schizofrenia significa, precisamente, taglio del diaframma, della membrana che unisce, distinguendole, le due parti del corpo, quella superiore e quella inferiore.
[14] Qui occorrerebbe fare delle osservazioni più generali sul Sud, che, però, si possono solo accennare en passant, in relazione ad un recente interessante libro. Parlando degli eventi irreversibili che costellano la storia, una recente pubblicazione vi cita pure Federico II e la sua scomparsa, cf. G. M. Cantarella, Imprevisti e altre catastrofi. Perché la storia è andata come è andata, Einaudi editore, Torino 2017, pp. 59-67. Tra l’altro, all’inizio cita la famosa biografia di Kantorowicz, “che ‘raccolse le lodi entusiastiche di Hitler, Göring e Mussolini […] le numerose riedizioni, fino al 1936, recavano in copertina ’”, ivi, p. 59: si tratta, evidentemente, di una colpa inespiabile … Si dice, poi, dell’ “aura” che ha circondato Federico II, “ed è stata recuperata nell’età tragica dei nazionalismi (non solo quello tedesco, sia chiaro!)”, ibid. Considerare Federico II nell’ambito dei “nazionalismi” è una errore gravissimo, quando, al contrario, non solo egli s’inscrive pienamente dentro la forma di sovranità occidentale, risalente all’Impero romano, con varie modifiche nel Medioevo, ma si oppose, non sappiamo quanto consapevolmente (probabilmente poco), ad una deriva i cui esiti sarebbero stati ben diversi da quelli che una parte della Chiesa avrebbe desiderato, errore che la Chiesa cattolica sempre ha computo nella storia. In una parola: non capisco il rimprovero: i vari nazionalismi novecenteschi recuperarono Federico II , è vero, ma questo avvenne per mezzo di una forzatura, in quanto Federico II è l’ultimo rappresentante dell’ universalismo dell’Impero, l’esatto contrario dei nazionalismi. La sua lotta contro una parte della Chiesa, non tutti i pontefici romani gli furono avversi, va precisato, non avveniva in nome della “nazione” o di una corona territoriale, bensì in nome dell’idea sovranazionale dell’Impero, idea che la storia avrebbe, di seguito, sconfitto. E questo ci porta alla storia del Sud: giustamente si dice che l’improvvisa scomparsa dell’Imperatore svevo “aprì una prospettiva semplicemente impensabile fino ad allora: quella dell’Italia angioina”, ivi, p. 66. Ora, di nuovo, senza “criminalizzare” proprio un bel niente, prendendo le cose come sono successe (e lo suggerisce l’autore appena citato), senza cercare la “storia contro fattuale” o il what if, che troppo spesso si riduce ad un semplice “gioco colto” senza valore – ed è verissimo -, proprio quest’evento segnò la storia del Sud. E non perché gli Angioini fossero “cattivi”, ripeto: non iniziamo un altro gioco, stucchevole quanto il what if, quello delle “criminalizzazioni” (i criminali ci sono nella storia, la criminalizzazione d’interi periodi, però, è altro discorso), ma perché quello angioino è stato un periodo che, pur essendo floridissimo dal punto di vista artistico, si è inserito in una fase storica di sviluppo “prenazionale”. Il Sud, insomma, il Mezzogiorno d’Italia si stacca dal resto d’Italia, mentre, con Federico II di Svevia, pur avendo già una sua netta fisionomia, il Sud è ancora parte di un organismo più grande: l’Impero. Significava entrare in una competizione con una forte debolezza sin dall’inizio.
Tale debolezza non è che si manifestasse immediatamente, al contrario, solo con la nascita della modernità si sarebbe pienamente sviluppata, portando, di seguito, alla “rifeudalizzazione”, parola forse sbagliata ma che denota un fatto vero: la marginalizzazione del Meridione d’Italia nell’evo moderno, che è un fatto.
Di tutto ciò, gli Angioini non ne sono i responsabili: niente criminalizzazioni. E tuttavia, con essi si entra in un ambito “prenazionale”, che avrebbe penalizzato il Sud, a patto che altri eventi fossero successi, ed ovviamente gli Angioini non potevano saperlo. Il Sud, abbandonato a se stesso, “gode” – si fa per dire … - di una situazione geografica e climatica che lo penalizza per principio: solo se il Mediterraneo fosse libero e unito, trovandosene al centro, potrebbe far valere il suo vantaggio posizionale. In ogni altro caso, lasciato a se stesso, ha un andamento “cancerizzante”, come il gambero cammina all’indietro. L’altra possibilità, è il far parte di un organismo più vasto, come l’Impero, ma non come l’UE, in quanto quest’ultima è il campo d’espressione di nazionalismi, dove quello tedesco è il più forte, ma quello francese non scherza, e i paesi dell’est Europa pure non scherzano: più sei chiuso nei tuoi interessi, più vali. In tal caso, in primis l’Italia è il classico vaso di coccio fra vasi di ferro, e, in secundis, il Sud vale zero (come la Grecia, tra l’altro, con la quale condivida in parte il problema della posizione geopolitica). Dunque la sconfitta di Federico II ha segnato, per il Sud, un momento tragico, malgré il même. Piaccia o non piaccia. Ed è stato il germe lontano della futura “catastrofica” situazione. Come tutti i germi, se non l’innaffi e non lo nutri, non cresce. Ha invece trovato tanto nutrimento ed acqua per crescere …
Su Federico II, vi è quest’interessante parre: “Gli eventi storici d’Italia e d’Europa, durante la prima metà del sec. XIII, son dominati dalla gigantesca figura dell’imperatore Federico II di Svevia: un sovrano proteiforme, sulla cui azione e sul cui pensiero gli torici posteriori non hanno ancora trovato una concordanza di giudizio. Alcuni lo considerano come il distruttore del cattolicesimo e come la personificazione dell’idea imperiale germanica, altri invece come un cattolico fervente, semplicemente in urto personale e non ideologico con i papi. I teoretici potranno illudersi di costruire norme per la coesistenza pacifica di due poteri universali: quello della chiesa […] e quello dell’impero […]; ma nella realtà non vi è posto per due poteri che vogliono esser universali. Fatalmente entrano in contrasto e uno deve cedere all’altro [come l’Impero cedette alla Chiesa, quest’ultima, però, a sua volta fu scalzata dagli stati “nazionali” e della borghesie che questi portavano su; nota mia]. L’impero universale, così com’era stato concepito dal papa Innocenzo III, comprendeva troppe cose materiali e terrene, per non interferire nel disegno imperiale di Federico II. D’altra parte questi, nella maturità del suo ingegno […], non riconosceva più alcuna autorità sopra di lui, perché era convinto che anche la sua missione era divina, […] che lo stesso suo impero era divino ed universale […]. A noi sembra che, nonostante il contrasto di queste idee e nonostante i fulmini della Chiesa, le scomuniche e le lotte, Federico II abbia sempre agito ed operato da cristiano e da cattolico, così come del resto volle morire. Egli, dopo una breve malattia, morì […] assistito ed assolto da Berardo, arcivescovo di Palermo. Un simile giudizio ci viene confermato dai molteplici rapporti che egli ebbe con l’abbazia di Montevergine. Dallo studio dei documenti in nostro possesso, l’imperatore Federico II, se non un benefattore della congregazione virginiana, deve certamente considerarsi un protettore tollerante e benevolo, da cui i monaci ottennero giustizia anche quando più feroce divampava la lotta tra papato ed impero, anche quando era già stato scomunicato dal papa Gregorio IX e dal papa Innocenzo IV”, P. M. Tropeano, Montevergine nella storia e nell’arte. Periodo normanno svevo, Arturo Berisio editore, Napoli MCMLXXIII, pp. 157-158, corsivi miei. Tra l’altro, “la sua devozione alla Madonna di Montevergine è largamente documentata”, ivi, p. 158, corsivi miei.
Dal 1973 ad oggi, tuttavia, sostanzialmente questa “concordanza di giudizio” non si è ancora trovata, probabilmente, come tutte le personalità storiche che vivono nelle epoche “di passaggio” e di “cesura”, la duplicità fa parte consustanzialmente della figura di Federico II di Svevia. Non la puoi togliere dalla sua figura, detto in altre parole. Nessun dubbio fosse cattolico, il contrasto era ideale, non riguardava la legittimità della Chiesa ma l’estensione del suo potere. Fu dunque un contrasto fra universalismi, però, e non certo l’affermazione del particolarismo nazionalista tedesco, su questo si deve esser chiarissimi.
[15] Cf. T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del maiale e il teatro contadino, cit., pp. 60-61. Su Pasolini, cf. Introduzione di Andrea A. Ianniello in L. Sangalli, Pasolini e lo sguardo del poeta. Uno studio suChe cosa sono le nuvole?di Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Vozza editore, Caserta-Casolla 2017.
Lo stesso Pasolini parlava di sé come di un “borghese settentrionale”, cf. ivi, p. 17, a fronte del “popolano del sud”, che lui ricercava, ed infatti i suoi film sono stati fra gli ultimi a documentare quel mondo al suo termine, in tal senso interessanti documenti antropologici di un mondo non passato, trapassato proprio. Ma sottovalutò gravemente la natura della borghesia meridionale, che non apprezzava: lui ricercava il “popolo”, contadino appunto, nei suoi ultimi riflessi vitali. Rimase un borghese del nord, e l’ammetteva senza problemi, il suo non era proprio per nulla “nostalgismo”, come fu all’epoca, purtroppo, mal inteso.
Era la lucida visione di una fine e del mondo che sarebbe venuto, il nostro, il “mondo senza qualità” popolato di “uomini senza qualità”, e sapeva bene che non avrebbe potuto aver alcun posto in questo “nuovo” mondo che allora si stava espandendo e che oggi si sta contraendo.
Non scherzino lor signori, gli “illustri strologatori”: ogni espansione oggi la puoi ottenere soltanto contraendo, schiacciando le società nei residuali legami sociali “qualitativo” che vi permangono.
[16] T. Zarrillo, La lavorazione della canapa, l’uccisione del maiale e il teatro contadino, cit., pp. 61-62, corsivi miei. 
[17] Cf. ivi, p. 83 e sgg. 
[18] Ivi, pp. 99-100, corsivi in originale. 
[19] Z. Zorich, “I Vichinghi scomparsi della Groenlandia”, Le Scienze, agosto 2017, p. 87, corsivi miei. Non riuscivano a capire che la causa del successo è la stessa causa dell’insuccesso come oggi non riescono proprio a capire che il continuo sviluppo tecnologico dissolve le società e cioè quel qualcosa che vorrebbero rafforzare. Solo l’Impero romano si rese conto che la continua espansione l’avrebbe portato al disastro, e la frenò, il che – di nuovo, giusto per capir bene come funzionano le cose e che nulla è “a costo zero” – lo precipita nella famosa “crisi del III secolo, dalla quale però uscì fuori, in parte anche per mezzo del Cristianesimo, con un assetto che in Occidente durò un altro secolo e in Oriente altri tre secoli fino a Giustiniano, compreso: non è poco in nessuno dei due casi, se si pone mente ai problemi enormi che aveva quell’Impero. Se oggi volessero durare, dovrebbero calmierare l’avanzamento tecnologico e passare alla redistribuzione almeno parziale delle ricchezze, allo scopo di stabilizzare il sistema, non di spingerlo sempre di più verso il punto d’ebollizione. Ma ciò  impossibile per una causa precisa: in ambedue i casi, si deve rinunciare ad accrescere il tasso di profitto. L’avanzamento tecnologico serve ad accrescere il tasso di profitto una volta che su determinati prodotti il profitto non possa che scendere e, mutatis mutandis, lo stesso può dirsi della redistribuzione, dove, in tal caso, il profitto è soprattutto finanziario, nell’altro caso è anche produttivo invece.
[20] Ibid., corsivi miei.  
[22] “L’ideale supremo della civiltà etrusca si espresse […] nell’insistente visione delle vittorie di Ercole, di Perseo, di Teseo […]. Davanti a quest’ideali l’etrusco che ignorò peccato e  pentimento, restò in piedi memore della sua augusta origine divina. Fu serio perché consapevole e non, come si vuol far credere, […] crepuscolare spirito perduto in un labirinto di stravaganze. In piedi e senza timore fissò negli occhi il suo rosso Apollo impetuoso e gagliardo che nella sala cristallina del museo scintillante, misterioso e impenetrabile seguita tuttora a sorridere”, G. Lensi Orlandi, Il segreto degli Etruschi, Gruppo Editoriale Brancato, Catania 2012, pp. 188-189, corsivi miei. 






4 commenti:

  1. I link portano direttamente alle pagg. segnalate poiché siamo in agosto e in estate, dunque per dynamizzare un po’ le cose.




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  2. http://www.viveremeglio.org/0_luce_soglia/libri/idee_popolari_sulla_reincarnazione.pdf/




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  3. Il 19 ottobre, nell’Aula consiliare di Marcianise, si è svolta la presentazione del libro di Zarrillo recensito, assieme ad altro, qui sopra. Si è trattato molto di temi locali, cosa più che legittima, che però ha dato meno importanza a quelli antropologici, che, invece, son centrali. Certo, si è piuttosto **enumerato** i temi antropologici del libro, senza però quell’approfondimento che avrebbero meritato, inoltre qualche problema tecnico di troppo ha reso la serata molto, troppo lunga. Insomma, quella della canapa era una civiltà, si può senza dubbio tentare di ripristinare questa coltura, e, in piccola parte, lo si sta già facendo, ma non è il punto vero. La questione dell’industrializzazione, dei suoi problemi e guasti è stata trattato solo “en passant” da P. Broccoli, ma si ricollega direttamente ai destini di certe località delle Provincia di Caserta, e non solo, si è visto – altrove – come il tessile abbia interessato altre zone del Regno delle Due Sicilie e del Mezzogiorno. Detto tutto ciò, rimane che Marcianise è, in pratica, l’unico posto “vivo” rimasto nella **cosiddetta** “Terra di Lavoro”, nome che parte dalla Liburia – l’agro aversano in gran parte, con un po’ di nolano, oggi Provincia di Napoli divenuta “Area metropolitana” del capoluogo di regione ed ex capitale, ex per natura (Napoli è sempre “ex”) – e poi s’estende a zone più vaste. Liburia e Liguria hanno la stessa radice, “di Lavoro” fa riferimento ai Leborini, popolo il cui “totem” era la lepre, “lepus” o “lebus” (gen., lèporis). Infatti, la serata è stata gremita (**non** “grèmita”, come diceva per “i” scherzo Proietti nel recitare la poesia “Il lonfo”, di F. Maraini, padre di Dacia Maraini), con gran parte delle autorità locali, ma pure presidi e professori di vari istituti locali, insomma con un’attenzione che ha reso la serata, in ogni caso, un **successo**, nonostante le sue “défaillance” varie. Si veda la “città morta” di Caserta: Marcianise discute di se stesso, Caserta non lo fa.
    Il limite, giriamo sempre intorno alle stesse cose, si è visto in quel che s’è detto, e ripetuto, altrove: la “marginalità”, ma non solo della Provincia di Caserta, direi dell’intero Meridione d’Italia: si ha difficoltà grosse ad addivenire ai “nodi” sostanziali, si rimane “marginali” mentalmente, non si giunge mai “in medias res”, come fosse scritto che il Sud debba sempre rimanere subalterno, come se non si possa far altro se non rimaner chiusi in tematiche locali. Ma questo è **un male antico**, nel Sud.
    Purtroppo tendiamo sempre a rimanere marginali, subalterni ad altri, rinchiusi in logiche locali. I temi non “prendono aria”, non levitano in un’ottica, per lo meno, “nazionale”, il che spiega molte cose. Vi sarebbe molto da dire, ma rimandiamo ad altre occasioni. Comunque, una serata interessante, che però non è arrivata ai “nodi” di fondo. Chissà se mai vi sarà l’occasione di farlo.




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    1. Caserta la città morta, ricorda il film “La zona morta” di D. Cronenberg, del 1983, anno d’uscita anche de “La Rovina di Kasch”, tra l’altro, ai cui temi, dopo tanti anni, R. Calasso è tornato con “L’innominabile attuale” (2017), “innominabile attuale” che è un’espressione presa precisamente da “La Rovina di Kasch”.
      Ne “La zona morta”, un professore, dopo un lungo periodo di coma, ritorna con la possibilità di precisar esattamente gli eventi futuri, tipo stringendo la mano di qualcuno; e una volta gli capita di stringere la mano a Greg Stillson, nuovo candidato al Senato Usa, che presto sarebbe divenuto Presidente, **facendo la politica che avrebbe fatto Trump molti anni dopo**, quella che – oggi – si dice “populista”. Dopo avergli stretto la mano, però, il protagonista si rende conto che Stillson avrebbe usato la bomba atomica …
      Come suol dirsi, ogni problema è, almeno, se non certo “spiegato”, “preconizzato” in un qualche film, **intravisto** in un film … Siamo nel lontano **1983**, va ribadito.
      Una frase del film è interessante: “Cosa farebbe, se avesse l’opportunità di tornare indietro nel tempo e uccidere Hitler?”. Alla fine, il professore decide di sacrificarsi, diversamente invece le cose sono andate per R. Bianchi Bandinelli, protagonista del film “L’uomo che no cambiò la storia”, del 2016, l’anno scorso. Nel 1938 Hitler fece l’unico vero viaggio fuori dalla Germania, in Italia, per altri motivi, ma voleva vedere i famosi resti classici, e il regime fascista scelse Bianchi Bandinelli come guida. Bianchi Bandinelli – per quanto ben visto dal regime –, quanto a lui, era un fervente antifascista. Ci si può, dunque, facilmente immaginare come la “golosa” occasione per far fuori sia Hitler sia Mussolini e in un sol colpo. Ma Bianchi Bandinelli non fece nulla, non s’immolò, diversamente dal protagonista de “La zona morta”; in queste cose, infatti, vi è un “quid” individuale praticamente irriducibile.




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